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Cutterhead

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VOTO: 8

Sotto pressione

Guardare in anteprima italiana Cutterhead nel corso della prima edizione di Oltre lo specchio è stato come assistere alla nuotata di un pesce fuor d’acqua in un habitat che non è il suo. Di fantastico o fantascientifico, infatti, il film di Rasmus Kloster Bro non ha proprio nulla, ma ciò per qualche logica che al momento ci sfugge è stato inserito nelle line-up di ben due kermesse del settore, il Neuchâtel International Fantastic Film Festival 2019 e di recente proprio il neonato festival milanese, dove tra l’altro è stata una delle piacevoli sorprese offerte dal programma.
Nota a parte, l’opera prima del cineasta danese ci porta al seguito di Rie, una giovane giornalista, che ha il compito di documentare la cooperazione intra-europea per la costruzione della metropolitana di Copenaghen. Durante le riprese al cantiere, a causa di un guasto la donna si ritrova prigioniera all’interno di una camera di pressione con due operai: la permanenza obbligata si trasformerà in una claustrofobica lotta per la sopravvivenza.
Nel DNA di Cutterhead convergono situazioni e dinamiche, a cominciare dalla discesa nel sottosuolo e dalla circoscrizione forzata in un’unità topografica, più volte sviluppate e mostrate sul grande schermo, di conseguenza l’originalità non è di certo il punto di forza del progetto. Semmai di originale e in parte inedita c’è l’ambientazione chiamata a fare da cornice alla vicenda narrata, vale a dire il cantiere sotterraneo di una linea metropolitana e nello specifico una camera iperbarica, da prima fonte di salvezza al momento dello scoppio dell’incendio e successivamente trappola dalla quale provare a fuggire pena la morte. Nemmeno la costrizione in una location di un gruppo più o meno folto di sconosciuti costituisce una novità, ciononostante il film riesce a gettare lo spettatore in un “inferno” che lascia senza fiato dal momento in cui la protagonista, e con lei la macchina da presa di Kloster Bro, scendono nel cantiere.
Il risultato è un coinvolgente e asfissiante huis clos fortemente ansiogeno, per il quale sconsigliamo caldamente la visione ai cardiopatici e a chi soffre gli spazi ristretti. Con l’incidente e l’entrata nella camera di decompressione alla sensazione di claustrofobia opprimente si va ad aggiungere un’escalation di tensione crescente che costringe lo spettatore di turno a una vera e propria apnea in assetto variabile. Un apnea che, al momento della risalita, richiede anche per il fruitore un periodo più meno lungo di decompressione. Non capita spesso di trovarsi al cospetto di un’opera capace di arrivare a un simile livello di oppressione. Ripensando ad operazioni analoghe, Buried o The Descent ci sono riuscite, mentre il più recente 7:19am del messicano Jorge Michel Grau ha invece fallito e di molto il bersaglio.
Il cineasta scandinavo lo colpisce in pieno grazie a un taglio semi-documenaristico volto ad aumentare in maniera esponenziale il tasso di realismo. La macchina da presa si adegua anch’essa alle condizioni di prigionia, vivendo in maniera invisibile insieme ai protagonisti l’odissea che li ha travolti. In questo kammerspiel riuscitissimo, arricchito dalle perfomance attoriali (su tutte quella di Christine Sønderris nei panni di Rie), l’autore riesce a mettere non solo la forma, ma anche una buona dose di contenuto. La situazione ormai degenerata, infatti, diventa il “teatro” e l’occasioneper illustrare la degenerazione dell’individuo, spinto dal solo, famelico istinto di sopravvivenza. L’essere umano dà il peggio di sé e il peggio detta le regole del mors tua vita mea, con la scena del respiratore conteso nel fango che ne restituisce tutta la disperazione, il dramma e la violenza.

Francesco Del Grosso

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