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Christine

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VOTO: 7

Unica e universale  

Non è facile trattare un tema spinoso e controverso come quello del suicidio. Soprattutto perché si rischia inevitabilmente di proclamare – anche involontariamente – una qualsivoglia tesi. Però capita che quando l’intento principale è quello di raccontare la vita di una persona in particolare che ha deciso di porre fine ai propri giorni, allora il discorso si fa più ampio e ci si concentra principalmente su ciò che ha spinto tale persona a commettere un gesto così estremo. È questo, ad esempio, il caso di Christine Chubbuck, giornalista per un’emittente televisiva di Sarasota, in Florida, che nel lontano 1974 ha deciso di togliersi la vita sparandosi in testa durante una diretta televisiva. La triste storia della giovane giornalista ci viene raccontata da Antonio Campos, che già ha avuto modo di farsi apprezzare nel circuito underground con i suoi primi lungometraggi – Afterschool e Simon Killer – e che qui si cimenta per la prima volta in una produzione di più ampio respiro, dirigendo, appunto, Christine, in concorso ufficiale alla 34° edizione del Torino Film Festival – per la sezione Torino 34.
Il gesto estremo, gli ultimi, drammatici istanti di vita di Christine Chubbuck non sono – in questo lungometraggio di Campos – che un episodio quasi “marginale” in confronto alla lunga lotta contro la depressione affrontata per molti anni dalla giovane protagonista. Quella che ci appare sullo schermo è una Christine estremamente sensibile, frustrata da un lavoro in cui i suoi meriti non sembrano ottenere il giusto riconoscimento e da una madre da cui è sempre stata trattata come un’amica, ma mai come una figlia. Una Christine sognatrice e forse un po’ naïve, che, una volta scontratasi con lo spietato mondo degli “adulti”, non è riuscita a reggerne il colpo.
E, dunque, per la scelta di raccontare la depressione di Christine in modo trasversale, delicato e privo di stereotipi, peculiarità di questo lavoro di Campos è proprio una buona sceneggiatura, che, anche se apparentemente non mette in scena nulla di “nuovo”, ad uno sguardo più approfondito rivela un’attenzione ed una sensibilità che purtroppo non sempre ci capita di trovare, senza disdegnare anche momenti di humour nero che – dato il tema trattato – stanno ad alleggerire il tutto nei momenti giusti. Il risultato è una protagonista altamente empatica, che – malgrado una malattia come quella della depressione sia ancora oggi realmente sconosciuta ai più – riesce fin da subito ad entrare a contatto con il pubblico. O meglio, possiamo addirittura affermare che è il pubblico stesso a “diventare Christine”, la quale viene, finalmente, compresa nel suo modo di essere “stramba”.
Merito della riuscita di tale intento è anche una regia priva di fronzoli, ma con interessanti momenti – come quando, ad esempio, vediamo l’immagine frammentata della protagonista intenta a guardarsi allo specchio, segno che è la stessa Christine a non riconoscersi quasi più, oppure quando, durante le scene ambientate all’interno dello studio televisivo, vediamo presente ma mai eccessivamente esplicito anche il metacinema, con pellicole, macchine da presa e proiettori trattati dal regista alla stregua di veri e propri personaggi – insieme ad un’ottima performance attoriale della brava Rebecca Hall, capace di repentini cambi di registro senza, però, mai eccedere e che, grazie a questa sua interpretazione, potrebbe anche aggiudicarsi importanti riconoscimenti.
In poche parole, Christine è un film piccolo ma ben confezionato, che ci racconta qualcosa di universale senza mai essere giudicante, partendo dalla storia di una persona ormai quasi del tutto dimenticata. Un film che magari non avrà l’attenzione che merita, ma che, senza dubbio, è un’ulteriore dimostrazione del talento di Campos e che fa in modo che, dopo la sua visione, ci si rifletta, di quando in quando, su. Qualità, questa, purtroppo non sempre facile da incontrare.

Marina Pavido

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