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Cells at Work!

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VOTO: 8

Siamo fatti così

 

Siamo fatti così
Dentro abbiamo il cuore
Solido motore.
Siamo fatti così
Trentadue bei denti
Candidi e splendenti.
Siamo proprio fatti così
Questo nostro corpo
È meglio di un computer
Vedrai…
Dalla sigla italiana di “Siamo fatti così
(Voce: Cristina D’Avena; testo: Alessandra Valeri Manera; musica: Massimiliano Pani)

Molti senz’altro ricorderanno Siamo fatti così, la serie animata educativa francese del 1987 nota anche come Esplorando il corpo umano e dedicata al funzionamento del nostro organismo, che un tempo andava in onda su Italia 1. I più cinefili faranno magari qualche altra associazione di idee, riguardo alla resa delle microscopiche realtà che caratterizzano il corpo umano, vedi ad esempio l’avventuroso Viaggio allucinante (Fantastic Voyage), pellicola diretta nel 1966 da un sublime artigiano come Richard Fleischer.
Simili tematiche e ambientazioni meritano sporadicamente qualche “update”. In questi anni la rivisitazione più divertente e appassionante di quanto accade nel corpo umano è venuta, ovvio, dalla cultura pop giapponese. Prima attraverso Cells at Work! – Lavori in corpo, ovvero il manga di successo scritto e disegnato da Shimizu Akane, pubblicato sulla rivista Monthly Shōnen Sirius di Kōdansha a partire dal gennaio 2015; poi attraverso il corrispettivo anime, per la regia di Suzuki Kenichi (stagione 1) e Ogura Hirofumi (stagione 2); e infine con lo spettacolare, pepatissimo (vedi l’irresistibile sequenza dell’espulsione delle feci dallo sfintere), cromaticamente esagerato e assai godibile adattamento cinematografico che abbiamo visto in anteprima al 27° Far East Film Festival, Cells at Work! (Hataraku Saibo, 2025) di Takeuchi Hideki.

Così come non sempre le ciambelle riescono col buco, non sempre le versioni live-action di popolari serie animate riescono a soddisfare le aspettative di pubblico e critica. Tra coloro che invece di tale opzione hanno fatto un’arte possiamo tranquillamente citare il Miike Takashi di Yattaman – Il film (2009), come pure quel Yamazaki Takashi capace di brillare sia nell’interpretazione di anime più recenti (Parasyte – Part 1 e Part 2) che in quella di serie ritenute ormai “classiche” (vedi Space Battleship Yamato, 2010). Ma il posto d’onore nell’allegra combriccola spetta proprio a Takeuchi Hideki, che all’irresistibile Thermae Romae (con relativo sequel) deve una parte consistente del suo successo.
In Cells at Work! ha colpito nuovamente il bersaglio grosso, parlando al pubblico con una leggerezza non priva di azzeccati, centratissimi riferimenti (riscontrabili all’interno di un divertissement tanto esilarante quanto pirotecnico e colorato) a una determinata cornice sociale. Come scrive acutamente Mark Schilling: “I film giapponesi, specie quelli commerciali, strizzano l’occhio ai colletti bianchi e e ad altri lavori tra il pubblico in sala, quelli che con autoironia si definiscono hatarakibachi (api operaie) ma vengono anche descritti più simpaticamente come kygyo senshi (guerrieri aziendali). Un esempio di film di grande successo è stato Shin Godzilla di Anno Hideaki (2016), in cui scienziati, soldati e funzionari governativi si uniscono per salvare il Giappone dalla minaccia esistenziale di Godzilla. Gli impiegati presenti tra il pubblico si esaltarono per il grande entusiasmo della squadra giapponese. Qualcosa del genere accade anche in Cells at Work!, dramma fantasy di Takeuchi Hideki tratto da un manga di Shimizu Akane che esplora i meccanismo del corpo umano.

Insomma, è un po’ lo spirito del “Gambatte”, diffusissimo augurio ad impegnarsi tutti fino alla fine. Magari anche fino all’estremo sacrificio. Come nel caso degli eroici globuli rossi, globuli bianchi, linfociti, piastrine, eccetera eccetera, tutti opportunamente ridotti a forma antropomorfa, che vediamo qui impegnarsi duramente per riparare corpi minacciati ora da un “banale” streptococco, ora persino dalla leucemia. Drammaturgicamente parlando Takeuchi Hideki è abile nel far scorrere in parallelo l’immaginifica (ma scientificamente, a suo modo, accurata) rielaborazione di quanto accade nel corpo umano e le storie reali dei proprietari di quei corpi, nella fattispecie padre e figlia. Ma il meglio un film del genere lo offre naturalmente nella sua dimensione fantastica, surreale, nondimeno demenziale e grottesca, corredata poi da scenografie e costumi alquanto pittoreschi con personaggi che, quando si confrontano duramente tra loro e negli iperbolici combattimenti, non possono fare a meno di ricordare (a partire volendo dalle singolari divise) quelli delle adorabili serie Tokusatsu anni ’60 e ’70.

Stefano Coccia

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