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Parasyte – Part 1

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VOTO: 7,5

Alienazione… a portata di mano

Specie dopo l’esaltante vittoria ottenuta, l’anno prima, con la profonda e appassionata rievocazione bellica di The Eternal Zero, c’era grande curiosità a Udine per la presenza del regista di culto Takashi Yamazaki. L’incursione del cineasta nipponico al 17° Far East Film Festival ha coinciso peraltro con la presentazione dell’attesissimo Parasyte – Part 1 e Part 2, adattamento cinematografico del manga di Hitoshi Iwaaki concepito attraverso due episodi la cui uscita, in Giappone, è stata programmata a distanza di qualche mese. Il piano distributivo riflette bene la suspense e le aspettative che vengono a crearsi, nell’intervallo tra un segmento e l’altro di questa mini-saga. Tuttavia, alla prova del nove, possiamo candidamente ammettere che l’incipit della comunque vivace odissea cinematografica ci ha visto maggiormente coinvolti, rispetto alla sua conclusione, per cui ci è sembrato opportuno recensire separatamente le due parti ed esprimere giudizi leggermente diversi.

Scendendo nei dettagli, Parasyte – Part 1 è parso mantenere un equilibrio notevole, di gran lunga più riuscito, tra le componenti grottesche e quelle orrorifiche del racconto, tra il senso di minaccia agli equilibri della società giapponese e i parametri dell’intrattenimento puro.
Quella che Takashi Yamazaki ci racconta è in fondo la più classica delle invasioni aliene, modellata su un archetipo che può essere facilmente ricondotto a L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel, con tutti i suoi derivati: presenze aliene che prendono possesso dei nostri corpi, sostituendo la loro coscienza alla nostra e finendo così per occupare i posti chiave della società.
Fortunatamente tale risaputo copione subisce già in questo episodio una serie di aggiustamenti e variazioni sul tema, che rendono la visione non soltanto godibile, ma anche foriera di qualche riflessione non peregrina. In tal senso il fatto che il “fronte alieno” abbia una composizione così variegata alimenta già un certo interesse: un po’ come nei Visitors, dove i famelici invasori alieni avevano al loro interno qualche sparuta “quinta colonna” ed elementi più propensi alla convivenza pacifica con la razza umana, anche nel film giapponese si delinea un quadro simile, per giunta molto più sfaccettato. Tra le creature aliene che “espropriano” i corpi dei loro sfortunati ospiti ci sono infatti personalità di vario genere: spietati assassini affamati di carne umana, politicanti intenti a circoscrivere le uccisioni affinché la loro presenza non dia troppo nell’occhio, spiriti più raffinati desiderosi di studiare le differenze biologiche tra le due razze e persino qualcuno disposto a “fare amicizia”.
E qui viene il bello. Se la maggior parte degli alieni, simili nell’aspetto originario a repellenti millepiedi, è riuscita a contagiare gli umani infilandosi nel loro cervello e generando una mutazione, al più goffo Migi (“Destro”, per l’appunto) l’impresa è riuscita solo a metà: sottrattosi un po’ per caso al primo assalto, il dormiente Shinichi si sveglia e reagisce istintivamente alla creatura che lo ha preso di mira, la quale non trova di meglio che infilarsi nella sua mano e prenderne possesso, fino a trasformarla in una specie di entità autonoma!

Il rapporto inizialmente conflittuale, poi simbiotico, tra Shinichi e la sua mano aliena è pertanto fonte sia di gustose derive grottesche, sia di una relazione dai contorni pressoché inediti tra un rappresentante del genere umano e “l’altro”. Oltre che a orchestrare il gioco con un certo ritmo, in cui escalation drammatiche si mescolano abilmente a parentesi ludiche, caricaturali, il buon Takashi Yamazaki è stato bravo ad assicurare in partenza quel minimo di spessore alle situazioni più delicate, grazie anche ad opportune scelte di casting: ne è un esempio lo spigliato Shota Sometani, che interpreta proprio Shinichi. Laddove tali produzioni cinematografiche privilegiano spesso icone pop non particolarmente espressive, si è scelto invece un giovane attore abbastanza talentuoso per questo ruolo non facile, che vede il protagonista dialogare a lungo con la sua mano, alternando di volta in volta disgusto, paura, curiosità, tenerezza e diverse altre reazioni emotive.
Quando il gioco si fa duro, quando le persone più vicine al ragazzo cominciano a essere brutalmente trasformate o a correre altri pericoli, quando la mano vivente Migi (in grado di riconoscere a distanza gli altri parassiti alieni, che diffidano ormai dello strano duo) finisce per rapportarsi a lui più come alleato (e come arma di autodifesa, visti i suoi letali poteri) che come arrogante ospite, si pongono le premesse per quel crescendo che troverà ulteriori e sorprendenti sviluppi nella seconda parte…

Stefano Coccia

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