Benedetta Carlini, la religiosa
Una vecchia teoria in psicologia parla dell’orgasmo in chiave di sinestesia associabile a una forma di trance, ovvero uno stato di alterazione in cui subentra una diversa personalità. Teoria che si basa sulle esperienze di una ex-suora che sosteneva di provare durante i rapporti sessuali emozioni simili alle estasi mistiche e ascetiche della vita di convento. La stessa conoscenza intesa in senso biblico come carnalità era alla base dei ragionamenti pasoliniani di Teorema. Su un’idea molto simile, di equivalenza tra misticismo e sessualità, è incentrato Benedetta, l’ultima opera di Paul Verhoeven, presentata al 74° Festival di Cannes. Il regista olandese, con alle spalle la sua carriera hollywoodiana, arriva a concepire questa opera dopo le sue ricerche sulla figura di Gesù, tese a indagare il lato umano di Cristo – un po’ come in L’ultima tentazione di Cristo –, confluite nel suo libro “L’uomo Gesù – La storia vera di Gesù di Nazareth”. Benedetta si ispira alla figura storica di Benedetta Carlini, suora vissuta a Pescia nel XVII secolo, e al libro di Judith Brown “Atti impuri – Vita di una monaca lesbica nell’Italia del Rinascimento” basato sugli atti del processo alla religiosa che intratteneva una relazione omosessuale con la consorella Bartolomea.
Con Benedetta, il regista di Basic Instinct e di Showgirls, realizza un nuovo viaggio nei meandri del desiderio, declinato al femminile, di una sessualità che non è in contrasto con il sentimento religioso in quanto tale, bensì con un’ortodossia ecclesiastica che ha artificiosamente inventato dei dogmi per puri motivi di potere. Verhoeven riesce a realizzare un film blasfemo sulla carta, che non lo è mai di fatto, in quanto il comportamento sessuale di Benedetta e Bartolomea, è considerato antisociale e deviante dalle gerarchie del clero. L’istituzione ecclesiastica viene vista come un’entità gretta e avida, simboleggiata in questo dalla badessa del convento, che accoglie solo novizie in grado di versare una cospicua retta. In questo senso va vista la statuetta della Madonna intagliata come dildo e usata dalle due religiose per i loro giochi erotici, come un’equivalenza, o una non contraddizione tra erotismo e misticismo. Una scena che ha un solo precedente, quello del crocifisso in L’esorcista, laddove però faceva parte del territorio demoniaco. La stessa Benedetta è una nuova Giovanna d’Arco che combatte una battaglia femminista. La figura della santa francese è del resto citata nel film nel riferimento alle stesse pratiche di tortura che le erano state inflitte. Anche Benedetta ha le sue visioni cristologiche e, quando da bambina lancia strali contro dei briganti che si sono impossessati della collana della madre, questi vengono immediatamente colpiti dagli escrementi di un uccello che spunta improvvisamente dalle fronde di un albero, come a indicare una reale connessione della donna con il divino. Poco importa in realtà che questa sia reale o immaginaria: Verhoeven mantiene l’ambiguità come tipico del suo cinema. E in questo senso va interpretata una scena come quella del nunzio morente che chiede a Benedetta, che già aveva visto la vita oltre la morte, se lo attenda il Paradiso, il Purgatorio o l’Inferno. Lei risponde con la prima delle ipotesi e lui l’accusa di mentire. O perché si rivela infine consapevole della sua corruzione morale e della santità della donna, o al contrario perché continua a reputarla un’eretica.
Verhoeven rimane un maestro dell’erotismo, che gioca sul disvelamento, sul gioco di vedo-non vedo, come il famoso incrocio di gambe di Sharon Stone in Basic Instinct. La complicità lussuriosa che monta tra le due suore mentre sono a letto, avviene figurativamente superando un velo che le separa, come un sipario. Benedetta è un film palpitante di carne, tanto quella dei corpi voluttuosi tanto quella consunta dalla peste ormai dilagante. E i sessi delle due donne rimangono occultati in questi momenti sessuali giocosi, come in un classico film erotico soft che non arriva mai a mostrare i genitali. I loro nudi integrali verranno invece esibiti in un contesto di umiliazione, drammatico, alla fine del film. Verhoeven realizza come un compendio di generi cinematografici, e letterari. Da un lato il tema dell’erotismo e dell’oppressione del convento, che passa da Rivette (Suzanne Simonin, la religiosa di Diderot), a Borowczyk (Interno di un convento), alla “nunsploitation”. Dall’altro i tanti roghi medioevali della storia del cinema, dal Dies irae di Dreyer in poi. E in quest’ottica Verhoeven inventa una salvezza improbabile all’ultimo minuto, grazie alla ribellione finale del popolo, elemento inventato di sana pianta nel film. Una catarsi femminista, inverosimile come quel finale di Fuga per la vittoria con l’abbattimento dei cancelli del campo di concentramento. Inverosimile ma non per il cinema.
Giampiero Raganelli