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Battle Royale – Director’s Cut

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VOTO: 9.5

Kitano da morire

Il conto alla rovescia è già cominciato. Mentre a Udine si attende il momento memorabile in cui il così ambito Gelso d’Oro alla carriera verrà consegnato proprio a lui, al mitico “Beat” Takeshi, quel volto beffardo e imperturbabile ha fatto comunque capolino sul grande schermo, tanto per ricordare agli spettatori del 24º Far East Film Festival una delle sue interpretazioni più intense: quella del Professor Kitano (talmente iconico, lui, da poter conservare il nome anche nella finzione cinematografica) in uno degli ultimi capolavori di Kinji Fukasaku, altro maestoso cineasta nipponico. Difatti Battle Royale – Director’s Cut è stato nuovamente proiettato al Teatro Nuovo “Giovanni da Udine”, la mattina del 23 aprile, nell’ambito della sezione Restored Classics. E il conturbante, sadico “maestro di cerimonie” impersonato da Takeshi Kitano, un villain senz’altro spietato coi suoi ex studenti ma umanizzato comunque dal sofferto background personale e familiare, rappresentata uno dei motivi che hanno trasformato in autentico cult movie la grandguignolesca pellicola di Fukasaku; per quanto essa fosse stata da taluni aspramente contestata, quando nel 2000 debuttò sugli schermi nipponici, proprio per la violenza reputata eccessiva e per quei contenuti così critici, nei confronti dell’autoritarismo e della tendenza a favorire una competizione selvaggia, colti all’interno della società giapponese. Critiche che, ça va sans dire, possono rappresentare altrettanti pregi.

Certo che a rivederlo oggi, l’ultimo lungometraggio firmato da Kinji Fukasaku (mentre il meno ispirato sequel Battle Royale II: Requiem risulta co-diretto da lui e dal figlio Kenta Fukasaku, ma quest’ultimo in realtà si prese l’incarico di terminarlo, data la prematura scomparsa del padre a causa di un cancro alla prostata), oltre a una forza intrinseca acquista una sorta di valore seminale.
Si pensi anche solo al prolifico filone young adult che ha caratterizzato il cinema stelle e strisce negli ultimi anni, quello ben rappresentato da saghe come The Maze Runner e – soprattutto – Hunger Games, di gran lunga la migliore del lotto. L’idea di adolescenti trascinati in gare di sopravvivenza all’ultimo sangue o in altri crudeli “riti di passaggio” è stata quindi ripresa più volte.
Importante è però sottolineare quei tratti così specifici, che rendono Battle Royale un’isola – anche in senso geografico, considerando l’ambientazione principale del film… – (in)felice, all’interno della cinematografia giapponese (e non solo), un monumento filmico al conflitto generazionale reso nella forma più iperbolica ed esasperata possibile. Tratto da un romanzo di Koushun Takami, tale plot condivide peraltro il mood estremamente violento, cinico e disilluso di molti manga pubblicati negli anni ’90 e riferiti all’universo giovanile, più specificamente alle croniche carenze e alla brutalità stessa del sistema educativo. Vedi ad esempio l’ancor più estremo Fortified School scritto da Takeshi Narumi e disegnato da Shinichi Hiromoto.

Ad ogni modo, nella distopica opera cinematografica realizzata da Kinji Fukasaku si immagina che quale risposta al contemporaneo aumento della delinquenza giovanile e della disoccupazione nel paese, giunta quest’ultima ben oltre i livelli di guardia, il governo giapponese decida di varare il Battle Royale Act, in base al quale venga periodicamente selezionato un gruppo di studenti delle superiori, da mandare in un luogo isolato dove dovranno combattere e scannarsi tra di loro, finché non ne resterà vivo soltanto uno. Su questo materiale già effervescente di suo il Maestro nipponico ha lavorato con un misto di acume e selvaggia euforia, dando un tono decisamente pulp alle truculente eliminazioni dei ragazzi, introdotti comunque tutti con grande attenzione – e dignità – nei meccanismi di questo set mortale, così da approfondire al contempo le varie sottotracce riconducibili al mondo della scuola, alle rivalità giovanili, ai sentimenti precari dell’adolescenza, a situazioni famigliari più o meno disastrose. E all’interno di questo perfido gioco lo stesso mattatore, il professor Kitano, non si rivelerà immune ala possibilità di far affiorare le proprie frustrazioni, debolezze, aspirazioni e quasi conseguenti rivalse. Una “danza macabra”, insomma, nella quale lampi di humour sulfureo accompagnano lo spettatore su un terreno non scevro di tetro lirismo e di profonde implicazioni sociologiche. Fa pertanto piacere che questo controverso capolavoro, ostracizzato sin dagli esordi per la miopia e il moralismo di alcuni, sia tornato a intrattenere mirabilmente e a far riflettere il pubblico nella sontuosa versione Director’s Cut proiettata a Udine.

Stefano Coccia

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