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On the Job 2: The Missing 8

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VOTO: 8

Una nerissima epopea filippina

La prima proiezione sullo schermo grande anzi grandissimo del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, dopo i momenti così difficili che abbiamo attraversato, ha visto di nuovo protagonista Erik Matti. Nel corso degli anni lo scanzonato, poliedrico regista filippino, abituato a scardinare i più disparati generi e ambiti cinematografici con un candore, in virtù del quale le notevoli ambizioni diegetiche finivano spesso per cozzare con certune ingenuità realizzative, aveva visto proiettati in Friuli diversi suoi film. Dal curioso Uomo Ragno filippino Gagamboy (2004) al fantasy Exodus: Tales from the Enchanted Kingdom (2005), che con pochi mezzi avrebbe voluto far concorrenza alle colossali produzioni di Peter Jackson. Solo per citare quei titoli che ci sono rimasti più impressi.
Con On the Job 2: The Missing 8, sequel del primo On the Job datato 2013, il 24° Far East Film Festival ha invece calato subito un risolutivo asso nella manica. Molto ben girato, livido, sulfureo, graffiante sul piano sociale e cinefilo nei rimandi, On the Job: The Missing 8 era approdato a Udine dopo ottimi riscontri festivalieri tra cui anche Venezia, ma l’esito ci è parso persino superiore alle aspettative: di gran lunga il più compiuto e maturo, tra i lungometraggi realizzati finora dal cineasta filippino.
Qui Erik Matti, pur non rinunciando a quegli “sbalzi umorali”, alle incursioni nel grottesco e alle piccole bizzarrie che caratterizzano di frequente il suo cinema, tutto dosato però con inedita compostezza, ha dato vita a un affresco di circa tre ore e mezzo le cui velleità “scorsesiane” o alla Coppola sono finalmente sostenute da uno script tanto pungente quanto articolato e avvolgente.

Nell’immaginaria località di La Paz (ma con echi di stragi che insanguinarono il paese come quella del 2009 ad Ampatuan, dove vennero massacrate 58 persone tra cui diversi giornalisti), ciò che va in scena è una fosca epopea che vede drammatiche verità continuamente insabbiate o persino stravolte (intelligente anche il riferimento alle manipolazioni operate nei social o al controllo delle grandi testate da parte di ambigui gruppi imprenditoriali), per coprire l’operato di politicanti privi di scrupoli, funzionari collusi, giornalisti al libro paga dei potenti, poliziotti corrotti ed estremamente feroci.

Dal crudele massacro di alcuni cronisti indipendenti in poi, la storyline è tutto un susseguirsi di indagini e occultamenti di prove, di ritorsioni e processi, di fughe disperate e ulteriori uccisioni. Un’escalation drammaturgica potente, accompagnata peraltro da riflessioni amare sul ruolo dei media e da considerazioni sul tessuto malato della società filippina che avevamo visto spesso affidate ad altri autori, vedi Brillante Mendoza.
Di brillante vi è però soprattutto la forma, in questo caso. Gli argomenti senz’altro ponderosi si specchiano infatti in quell’eclettico, originale, ispiratissimo alternarsi di stili, che caratterizza un noir elettrico, a tratti anche molto violento, laddove però le brutali uccisioni sullo schermo sono a volte accompagnate, con beffarda ironia, dalle eccentriche variazioni di tono della colonna sonora, altrettanto libera e spregiudicata. Tra metafisici tributi alle vittime del massacro stile Amabili resti ed esecuzioni o inseguimenti che rivelano una maestria alla De Palma, le oltre tre ore di proiezione appassionano il pubblico lasciandogli anche il margine giusto, per costruire la propria visione etica relativa ai temi della giustizia, della libertà di stampa e delle scelte individuali.

Stefano Coccia

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