Art is Revolution
Un’introduzione al cinema di Ken Russell
Estremo, ridondante, rococò. Immaginifico, sensuale, frastornante. In perenne, precario equilibrio tra il lampo di genio e il kitsch, tra magnificenza e cattivo gusto. Provocatorio e disturbante, innovativo e manierista. Famoso, chiacchierato, premiato (ma non troppo), demiurgo di fiaschi e successi, nel corso di una venerabile carriera spartita tra Gran Bretagna e Stati Uniti, biopic e musical, thriller e horror, sentimental drama e fantascienza.
Ken Russell, morto il 27 novembre 2011 a Lymington, nel natio Hampshire, a seguito di una serie di ictus, è stato un regista destinato a dividere il pubblico e a lacerare la critica, una figura autoriale che può essere restituita solo nelle contraddizioni che percorrono la sua filmografia.
A petto della drastica esiguità delle pubblicazioni in lingua italiana, Cineclandestino intende ricordare Ken Russell nella complessità polimorfa dell’orma che egli ha lasciato sulla battigia della settima arte. E lo farà anche attraverso lo scavo verticale in due dei suoi titoli più celebri, discussi, rappresentativi. Due film imperituri come i più bei sogni di celluloide concessi all’umanità.
Henry Kenneth Alfred Russell nasce a Southampton il 3 luglio 1927 e, prima di approdare alla regia, di tentativi, in altri campi, ne ha compiuti diversi, compreso un impiego ordinario per la Royal Air Force.
Guidato e forse un po’ invasato dall’amore per la musica, centrale in tutta la sua esistenza, si dedica, per un periodo, alla danza: il balletto rappresenta, per lui, la prima delle attività artistiche nelle quali si cimenta. Allievo, a Londra, di un ex componente del team parigino di Sergej Djagilev, il giovane Ken si esibisce all’interno di compagnie prestigiose come l’International Ballet e il London Theatre Ballet. Le punte, però, non sono la sua vera vocazione. E di questo si accorge presto.
A supplire alla danza, giunge, allora, la recitazione. Ma, imperizia o malasorte, Russell come attore non decolla. Certo, qualche rimpianto, a riguardo, dev’essergli rimasto, se è vero che, ormai ultrasessantenne, Russell si concede alla cinecamera dell’australiano Fred Schepisi, recitando, tra i fulgori di un cast all star ma includente, con tra gli altri, Sean Connery, Michelle Pfeiffer e Roy Scheider, nello spionistico La casa Russia (The Russia House, 1990). Una passione transitoria è anche quella per la fotografia, il tramite diretto verso l’audiovisivo. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, infatti, nasce il Ken Russell regista. È a quell’epoca che si colloca anche un fatto privato determinante, la cui conoscenza è indispensabile per una corretta focalizzazione della figura di Russell, come per un’esegesi appropriata di alcune componenti della sua poetica. Discostandosi dal pallido anglicanesimo di una famiglia non particolarmente osservante, Russell si converte alla confessione cattolica. Una libera scelta sopraggiunta al capolinea di un itinerario di riflessione. L’appartenenza alla Chiesa di Roma non sarà, tuttavia, irenica. Il regista, fin da subito, si dimostra un cattolico critico nei confronti della commistione, nella Chiesa, tra missione evangelica e potere politico. Nei suoi film, come emergerà nel prosieguo, tutto ciò si lascia più che avvertire.
I primi lavori realizzati sono cortometraggi amatoriali, tra i quali, per motivazoni diverse, possono essere ricordati, almeno, Peepshow (1956), Amelia and the Angel e Lourdes, ambedue del 1958.
Peepshow rivela senza reticenze la fascinazione da cinefilo di Russell per l’età del muto: girato secondo i crismi di un silent movie, ha tutta l’apparenza di una slapstick comedy dei tempi andati. Un orizzonte iconografico al quale Russell tornerà ad affacciarsi. Si pensi, soltanto, alla stravagante sequenza della conversione al cattolicesimo di Gustav Mahler nella Perdizione (Mahler, 1974), nella quale il compositore si sottopone alle prove sadiche inflittegli da Cosima Wagner. Cartelli, inquadrature, trucco costituiscono, in questo caso, un omaggio sfacciato all’Espressionismo tedesco. (Va da sé che, per quanto sopra narrato, la conversione di Mahler presenta anche una connotazione autobiografica). Amelia and the Angel, dolcissima fiaba di argomento angelologico, e Lourdes, severa accusa del business prodottosi intorno al pellegrinaggio mariano, rivestono, innanzitutto, un’importanza storica. Inviati, infatti, alla British Broadcasting Corporation, meglio nota come BBC, piaceranno alla direzione a tal punto da dischiudere, a Russell, l’adito al pregiato palco televisivo.
Ininterrottamente, dal 1959 al 1970 (per poi tornarvi da star internazionale negli anni a venire; ma questo è un altro capitolo), Russell, oltre che degli spot pubblicitari, si occupa, nell’ambito delle trasmissioni culturali Monitor e Omnibus, della realizzazione di documentari dai soggetti disparati, benché la sua predilezione si attesti sui profili delle personalità artistiche. Claude Debussy, Béla Bartók, Isadora Duncan, Antonio Gaudì, Sergej Prokof’ev, Dante Gabriel Rossetti, Richard Strauss e i ritratti loro dedicati testimoniano una direttrice dell’universo russelliano che già nelle esperienze giovanili prende corpo.
Le finalità pedagogiche dei programmi e la presenza, davanti al televisore, di un pubblico di massa impediscono guizzi sperimentali o forzature di sorta. Tuttavia, la lunga militanza alla BBC coincide, per il nostro, con un attrezzato ginnasio nel quale imparare il mestiere a livelli altamente professionali. E magari, contribuire, in parte, a innovare il documentario tradizionale virandolo alla fiction.
Nel mentre, Russell debutta anche sulla scena cinematografica. Il primo lungometraggio, a posteriori, avrebbe forse voluto dimenticarlo. French Dressing (1964), una commedia balneare, pruriginosa e disimpegnata, viene affossato dalla stampa. Ciò nonostante, la crescente bravura dimostrata in tv spinge la United Artists ad affidare a Russell, su consiglio dell’attore protagonista Michael Caine, la regia de Il cervello da un miliardo di dollari (Billion Dollar Brain, 1967), ovvero la terza avventura dell’agente segreto Harry Palmer, l’anti-James Bond nato dalla penna di Len Deighton. Budget elevato per una sceneggiatura e un genere già codificati.
Punto di non ritorno nel percorso cinematografico di Russell, Donne in amore (Women in Love, 1969), trasposizione dell’omonimo romanzo di David Herbert Lawrence, è l’oggetto del primo contributo monografico. Grazie alla risonanza transfrontaliera, procacciò al regista una fama mondiale (è questo, tra l’altro, l’unico titolo a valergli una nomination all’Oscar come best director), ma, al di là dei risultati commerciali e del favore della critica, la sua basilarità risiede proprio nella manifestazione poligonale del mondo interiore di Russell. Solo per tacere il contributo offerto dai due attori che Russell ha diretto più spesso (e volentieri): Glenda Jackson e Oliver Reed. In seguito, saranno altre cinque, per entrambi, le collaborazioni. Nel caso di Reed, già parte in causa nei documentari su Debussy e Rossetti, si parla anche di una comparsata e di un’apparizione non accreditata.
Negli anni Settanta l’aura del regista (ora anche produttore) si accende di bagliori sempre più intensi. È questo il decennio degli sfolgoranti biopic in 35 mm, che riprendono il filo della conversazione instaurata con il pubblico della BBC. Sfileranno, davanti a una platea cosmopolita, musicisti come, oltre al già citato Mahler della Perdizione, Pëtr Il’ič Čaikovskij ne L’altra faccia dell’amore (The Music Lovers, 1970) e Franz Joseph Liszt in Lisztomania (1975); scultori come Henri Gaudier in Messia selvaggio (Savage Messiah, 1972); perfino attori e, guarda caso, del cinema muto, come in Valentino (1977), storia maledetta dell’icona hollywoodiana Rodolfo Valentino, interpretato, per l’occasione (e per la serie tutto torna), dal più celebrato dei ballerini, Rudolf Nureyev.
Biografie decisamente eterodosse, che procedono con un andamento proustiano tra flashback e divagazioni e scelgono di privilegiare angolazioni inconsuete o morbose delle esistenze narrate (ad esempio, nel caso di Čaikovskij, interpretato dall’arcinoto dottor Kildare Richard Chamberlain, l’omofilia a lungo nascosta dalle autorità), sono queste le pellicole in cui si affermano sia lo stile che la Weltanschauung di Russell. Tra carrellate e panoramiche sontuose, tra i sussulti di una macchina (spesso a mano) palpitante, la realtà degrada nell’irrealtà e il sogno, la fantasia, l’allucinazione invadono lo schermo con i colori e le forme di un onirismo debordante e sfrontato. Mentre esegue le sue composizioni al pianoforte, Čaikovskij (e lo spettatore con lui) si libra in voli mentali tra le associazioni visive che le note gli suggeriscono…
Se l’agilità, le ellissi, le convulsioni del montaggio accodano Russell al Free Cinema britannico e alle diverse Nouvelle Vagues europee, l’immaginario pantagruelico dei suoi film, che può ricondurre, in parte, ai moduli surrealistici, è soprattutto figlio di personali fervori. È naturale, pertanto, che susciti reazioni e giudizi contrastanti.
“Art is revolution!” proclama a gran voce Henri Gaudier in Messia selvaggio. Motto che Russell ha fatto proprio. I biopic sono, in fondo, storie di outsider, di uomini che proprio nell’arte hanno trovato una valvola di sfogo alle inquietudini che li divorano. L’arte come alternativa radicale alla soffocante moralità invalsa, alle ipocrisie sociali, alla falsità delle apparenze. Gli artisti sono creature speciali e dannate, baciate dal genio e animate, al contempo, da una sete spasmodica di vita come dal cupio dissolvi. La morte, nella visione di Russell, li perseguita sotto diverse forme ed esige tributi smisurati. Morte che, al di là della relazione privilegiata con uomini fragili e folli come gli artisti, ricorre in Russell alla stregua di una vera e propria ossessione tematica. Quando, nel 1987, sarà coivolto, insieme a nove colleghi, in Aria, un progetto collettivo in cui ciascuno degli autori viene chiamato a “illustrare” un’aria d’opera, il cineasta, scelta sintomatica, rappresenterà Nessun dorma, da Turandot di Giacomo Puccini, come la battaglia per la vita di una donna in coma dopo un incidente automobilistico.
Nei dintorni di una concezione dell’arte come straripamento di pulsioni oscure, si può collocare, con un balzo avanti di un decennio, anche l’horror Gothic (1986), ovvero la notte in cui nacque Frankenstein. La letteratura è l’arte di turno e, ospiti di Lord Byron in una villa sul lago, i coniugi Shelley precipitano in un incubo raccapricciante che regalerà loro linfa e ispirazione.
Un paragrafo a parte è rappresentato dai musical. Il boy friend (The Boy Friend, 1971), un flop umiliante, storia dell’ignota trovarobe di una compagnia teatrale (la gloriosa modella Twiggy) che, sostituendo in extremis la vedette infortunata, diventa, novella Eva Harrington ma senza malizia, una stella, omaggia Busby Berkeley e la Golden Age hollywoodiana, in un’apoteosi d’invenzioni lussureggianti e bizzarre, come la coppia di ballerini che scivola magicamente su un enorme disco in vinile. Tommy (1975), ispirato, invece, all’opera rock degli Who, è uno dei film in cui più spiccatamente si manifestano la sensibilità religiosa e i rovelli spirituali di Russell. Il protagonista (impersonato dal cantante della band, Roger Daltrey, che sarà poi Liszt in Lisztomania) incarna una figura di sapore cristologico che, affrancatasi dal grave handicap a cui un trauma infantile l’aveva piegata, predica messaggi edificanti, in una società cinica e venale. Policromo e roboante, Tommy si avvale della presenza, nel cast, di autorevoli esponenti della musica leggera, come Eric Clapton, Elton John, Tina Turner e degli altri due Who John Entwisle e Pete Townshend.
I biopic, i musical. Non è possibile, tuttavia, attuare una ricostruzione attendibile dei Seventies di Russell senza considerare il suo titolo più conosciuto, I diavoli, con Reed e Vanessa Redgrave. Tratto da I diavoli di Loudun di Aldous Huxley attraverso la mediazione del dramma I diavoli di John Whiting, The Devils (1971) è il tema del secondo approfondimento di Cineclandestino. E non potrebbe essere altrimenti. Film che, oltre a totalizzare incassi lusinghieri, provocò scandalo e polemiche virulente, si configura, nel rievocare una vicenda storicamente avvenuta nella Francia di Luigi XIII e Richelieu, come una feroce denuncia, densa di scene e soluzioni a effetto, del connubio tra autorità spirituale e ambizioni politiche della Chiesa. Un vecchio dilemma del regista.
Stati di allucinazione (Alterated States, 1980), realizzato oltreatlantico (Il boy friend e Valentino erano co-produzioni anglo-americane, ma comunque girate in Europa), inaugura la seconda fase della carriera di Russell, quella in cui si associa, alla scoperta del Nuovo Continente, un progressivo declino del clamore e della fama che avvolge il cineasta. I tempi avanzano e ciò che destava sconcerto prima non necessariamente lo suscita ancora. Ragioni che spingeranno Russell, nonostante la mai perduta devozione alla decima Musa, a ritornare, sempre più frequentemente, alla sicura platea televisiva.
Stati di allucinazione, adattamento del romanzo omonimo di Paddy Chayefsky, autore, come Sidney Aaron, anche della sceneggiatura, è un lungometraggio di fantascienza in cui elucubrazioni antropologiche e suggestioni mistiche convergono nell’interrogativo filosofico sulla vera essenza dell’uomo. Uno scienziato (l’esordiente William Hurt), attraverso macchinari avveniristici e droghe allucinogene, scopre, nella sfera extrasensoriale, aspetti insospettabili di sé e caratteristiche primigenie della natura umana che ogni individuo custodisce al proprio interno. Il talento visionario di Russell, premiato dalla Academy of Science Fiction, Fantasy & Horror Films, deflagra in sequenze che possono solo repellere i detrattori, ma che, a ben guardare, evocano un’idea di dissoluzione dell’ordine e del corpo assimilabile al genio pittorico di Francis Bacon. La fantascienza non esaurisce, tuttavia, il panorama della produzione americana.
La sessualità e i suoi risvolti più torbidi hanno sempre occupato una posizione di rilievo nell’antropologia russelliana. Lo confermano due pellicole made in Usa molto diverse fra loro ma aventi entrambe, per protagonista, una prostituta. China Blue (Crimes of Passion, 1984) è un thriller erotico imperniato sulla doppia vita di una giovane stilista (Kathleen Turner), lavoratrice operosa di giorno , squillo la notte. Attraverso la sua infernale odissea, condita da voyerismo e persecuzione, Russell ci offre lo spaccato desolante di un consorzio di uomini e donne ossessionati dal sesso, siano essi clienti sadomaso, mogli inappagate, mariti promiscui o censori psicotici e repressi. La repressione come prodromo della distruzione è, d’altronde, un tema che Russell ha già magistralmente affrontato in Donne in amore, e che qui riaffiora grazie a un Anthony Perkins calato in una variante neo-hitchcockiana del Norman Bates di Psycho.
Whore (1991), invece, sulla scorta della pièce di David Hines, mette in scena una meretrice, dal volto di Theresa Russell (la quale, statunitense, non intrattiene alcuna parentela con Ken), intenta a raccontarci, sguardo in macchina, le tappe che l’hanno condotta fin lì e la pericolosa quotidianità delle donne di strada, tra protettori violenti e clienti perversi. Un flashback dopo l’altro (!), lo squallore metropolitano e il peggio della razza umana si condensano in un film che, sul piano formale, è uno dei più misurati del regista. Secco, tagliente, incisivo, adotta il registro della commedia con alcune pennellate pulp.
Con l’andare degli anni, Russell cederà più volte alle sirene dei classici della letteratura, sua mai estinta passione. Al vecchio, scandaloso Lawrence, prosatore con cui condivide molte affinità elettive, torna in due occasioni, La vita è un arcobaleno (The Rainbow, 1989) e il serial Lady Chatterley (1993). Da Oscar Wilde trae L’ultima Salomè (Salome’s Last Dance, 1988), curioso esempio di teatro nel cinema: lo scrittore irlandese assiste, infatti, in un lupanare, alla prima del suo spettacolo vietato al pubblico. Da Bram Stoker, La tana del serpente bianco (The Liar of the White Worm, 1988), un altro horror campagnolo e carnale, con un giovane ma già lanciato Hugh Grant. Da Robert Louis Stevenson, il film per la tv Treasure Island (1995). Da Edgar Allan Poe e, più di nome che di fatto, da un racconto che, a partire da Jean Epstein, ha regalato al pubblico pagine memorabili di cinema, The Fall of the Louse of Usher: a Gothic Tale for the 21st Century (2002), l’ultimo lungometraggio per il grande schermo, un pastiche in cui horror, musical e black comedy si spalleggiano all’insegna di un’ispirazione al testo molto libera e iconoclasta.
Nel nuovo millennio un ostinato oblio sembra ormai disceso su Russell, nonostante l’attività registica prosegua con regolarità, specializzata ormai in cortometraggi, video e tv-movie. Tant’è vero che l’ultimo lavoro, Boudica Bites Back, un corto, data al 2009.
Per ricordare, oggi, Ken Russell, occorre il coraggio di abbandonarsi a emozioni confliggenti, come può suscitarne chi ha filmato baccanali assatanati e amplessi concupiscenti ma anche il tenero amore che sboccia negli sguardi e nella gestualità minuta, coreografie mirabolanti e sequenze epiche ma anche la solitudine e la vulnerabilità dell’individuo dinanzi all’imperscrutabile mistero della vita. Occorre accettare le contraddizioni di un artista e di un uomo.
Dario Gigante