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Donne in amore

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VOTO: 9

Donne (e uomini) in amore

You can’t have two kinds of love”. “Non si possono avere due tipi di amore”. L’incredulità di Ursula si arrocca in sentenze e frasi di buon senso, alla ricerca, ormai disperata, di una rassicurazione. Ma il controcampo, visivo e dialettico, di Rupert, suo marito, equivarrà al colpo di grazia. Il primo piano di un’Ursula sbigottita, congelato nel fermo immagine che precede l’apparizione dei titoli di coda, è il doloroso fotogramma in cui precipitano il film e la storia. Seduto sulla poltrona, davanti al fuoco, Rupert, con l’espressione serafica e distesa di un uomo in pace con se stesso, le ha appena confessato che, al contrario di quanto lei creda o si ostini a credere, “Non è impossibile”. “I can’t believe that”, in lingua originale. Riferendosi, naturalmente, a quell’amico, Gerald, che lui amava, senza che i suoi sentimenti per Ursula ne fossero intaccati.
L’intersezione tra le parabole creative di Ken Russell e David Herbert Lawrence sembrerebbe predestinata: colui che diverrà il provocatore per antomasia del cinema anglosassone e, dall’altra parte, lo scrittore marchiato dall’infamia dell’oscenità. A ripercorrere la gestazione di Donne in amore (Women in Love), si scopre che, invece, non tutto filò così liscio. I fatalisti traggano, poi, le illazioni opportune.
Ad acquisire i diritti di Donne innamorate, pubblicato da Lawrence nel 1920, fu, per conto della United Artists, l’intellettuale statunitense Larry Kramer, che attese anche alla composizione della sceneggiatura. A dirigere, avrebbe dovuto essere il regista canadese Silvio Narizzano. Ad accordi già contratti, spiacevoli vicende personali indussero Narizzano a lasciare l’arena. Quanto accadde impose alla produzione di reperire al più presto un sostituto. Vennero passati in rassegna diversi nomi e incassati altrettanti rifiuti. Fu solo a questo punto che si scelse di convocare un filmmaker poco più che quarantenne, già molto attivo nel Regno Unito: tale Ken Russell.
Il copione fu riscritto a quattro mani, anche se, a tutt’oggi, l’unico accreditato rimane Kramer, e Women in Love, la pellicola che avrebbe dovuto essere di un altro, uscita in patria nel settembre del 1969 e distribuita, poi, all’estero, calamitò un successo internazionale, suggellato da undici candidature ai premi Bafta e quattro agli Oscar. Non solo. Dopo un disastroso esordio, uno spy-movie su commissione e un decennio di documentari alla BBC, Donne in amore rappresentò, per Russell, il film della svolta, il primo in cui la sua personalità autoriale emerse a tutto tondo, nello sposalizio tra i temi a lui cari e lo stile che lo renderà inconfondibile.
La traduzione sullo schermo delle pagine del romanzo appare ispirata a una sostanziale fedeltà. Fin dal prologo, in cui ascoltiamo Ursula e Gudrun vaneggiare sul futuro mentre assistono, da spettatrici, a una cerimonia nuziale, ritroviamo Lawrence. E il prosieguo sarà un’ulteriore conferma. La trama gravita intorno alle sorelle Brangwen, giovani esponenti della piccola borghesia dei distretti carboniferi delle Midlands, nel primo dopoguerra. Ursula è una dolce e graziosa maestra, agitata da slanci romantici ma scettica sulle effettive virtù del matrimonio. Gudrun è una scultrice appariscente e anticonformista, disinibita e sognatrice. La prima allaccerà una relazione con l’ispettore scolastico Rupert Birkin, un misantropo impenitente infiammato da un ideale così elevato e totalizzante dell’amore da non vederlo realizzato in alcun rapporto di coppia, e Rupert, per lei, romperà con la facoltosa fidanzata Hermione. La seconda si legherà, in un’unione turbinosa e devastante, a Gerald Crich, rampollo di una schiatta di possidenti minerari bollata dalla pazzia.
La differenza con il testo d’origine si gioca, piuttosto, sulla ricalibrazione delle componenti tematiche. Nel suo libro, infatti, Lawrence, oltre a trasfigurare, nella quadriglia dei personaggi e nelle relative dinamiche, l’amicizia incandescente che unì lui e sua moglie Frieda a un’altra celebre coppia, Katherine Mansfield e John Middleton Murry, sviluppa, innanzitutto, il tracciato dell’educazione sentimentale di due ragazze di provincia. Il che non meraviglia, dall’autore dell’Amante di Lady Chatterley. A margine, Lawrence ci narra l’affetto misterioso e sotterraneo che s’instaura tra Gerald e Rupert.
Nel film, invece, il traino degli eventi è costituito proprio dall’attrazione inesplicabile tra i due uomini, e soprattutto dall’introiezione della forza che li sospinge uno verso l’altro. Ciò non sorprende se si pensa che Kramer è stata una delle figure centrali della cultura omosessuale del Novecento. Gerald e Rupert non sottraggono spazio diegetico alle compagne, ma l’immersione nelle loro psicologie è tale che gli accadimenti non possono essere interpretati che alla luce (e all’ombra) dell’interiorità dei due. Se Birkin accetta, come una caratteristica endemica della sua persona, il desiderio dell’amico, riuscendo così a imboccare la via della serenità, a smussare gli angoli contundenti della sua indole e a diventare, per Ursula, un marito premuroso e devoto, Crich, nel tentativo di scacciare da sé un’inclinazione che rifiuta perfino di nominare, non troverà in Gudrun l’agognata quiete. Al contrario, dopo aver causato, nella partner, una profonda infelicità, finirà per distruggersi. La tragedia non arriva inaspettata. La pretesa di controllare le emozioni, con la stessa, inesorabile meccanicità dei macchinari d’ultima generazione introdotti nelle miniere sulla scorta d’idee positivistiche e rampanti, si rivela fallimentare.
Se, nel romanzo, ad accelerare il destino sono l’incontro, tra le nevi alpine, di Gudrun e Loerke, un artista tedesco con amasio al seguito, e l’interesse dimostrato dalla giovane per lui, nel film Loerke, esaltato dall’istrionismo del polacco Vladek Sheybal, è troppo palesemente effeminato per risvegliare la gelosia di Gerald, ma, in fondo, anche la passione di Gudrun, affascinata dall’artista, non dall’uomo. Gerald è ormai già logorato dentro, dalla repressione e dalla paura. Il suo ultimo dialogo con Rupert è significativo: mentre l’amico gli ribadisce il suo inesausto amore, lui riesce soltanto a manifestare una sofferenza che imputa a Gudrun, e, attraverso di lei, a tutte le donne, alla  femminilità stessa.
La sequenza che, dopotutto, meglio esprime la visceralità e i sottintesi della relazione tra i due uomini, famosa per lo shock provocato nel pubblico di allora, è quella, indimenticabile, della lotta. Una tenzone corpo a corpo in cui Alan Bates e Oliver Reed, magnifici interpreti di Rupert e Gerald, donando alla macchina da presa un nudo integrale di disarmante generosità, sfogano, sul parquet di casa Crich, i loro impeti, in una danza marziale che, tra ribaltoni e capovolte, riassume la loro vicinanza fisica e spirituale. Un interludio di libertà nel quale possono essere, anche se violentemente, se stessi. Se l’omosessualità virile irromperà sugli schermi britannici nella gamma completa del suo linguaggio corporale solo due anni più tardi, nel capolavoro di John Schlesinger Domenica, maledetta domenica (Sunday, Bloody Sunday, 1971), una sequenza simile elegge Donne in amore a degno apripista. E forse, per ritrovare lo stesso impasto di baldanza e omoerotismo, animalità ed energia vitale, bisognerà attendere il 1976 e le immagini della lotta acquatica tra i due centurioni nell’incantevole Sebastiane di Derek Jarman, cineasta che, non a caso, mosse i primi passi sui set come scenografo di Russell ne I Diavoli e in Messia selvaggio.
La sequenza dello scontro fra Bates e Reed è, al tempo stesso, emblematica della fisionomia  formale che le produzioni di Russell andavano assumendo. In un tripudio di carrelli vertiginosi, nell’impiego disinvolto della macchina a mano, nel montaggio esuberante e nella tensione febbrile dei corpi attoriali, lo stile dionisiaco ed eccessivo di Russell si dispiega con irruenza. Non è l’unico brano del film in cui ciò avvenga, ma, senza dubbio, il migliore.
Un’audacia stilistica affine sorregge altre due sequenze capitali, girate in esterni e molto eloquenti nel descrivere la comunione panica tra uomo e natura che Russell ha frequentemente rappresentato. In una, Bates, dopo il definitivo alterco tra Rupert e Hermione, s’inoltra nella campagna, spogliandosi progressivamente d’ogni accessorio e indumento, fino a coricarsi nudo a terra e lasciarsi accarezzare dalle erbe essiccate dal Sole, lontano dall’intrusione umana, calato nelle profondità di sé in un’intima fusione con l’anima selvaggia del cosmo e inondato da una cascata di luce. Un autentico Meriggio dannunziano. Nell’altra, Glenda Jackson, intensa nell’impersonare Gudrun al punto tale da aggiudicarsi il primo dei due Oscar della sua carriera, carica e mette in fuga una mandria di possenti bovini, abbandonandosi a una corsa orgiastica e pulsionale. La scena che segue, un rimbalzo di campi tra lei e Reed, è montata attraverso così virtuosistiche dissolvenze che sullo schermo paiono piovere macchie di colore: un dripping cinematografico.
La natura, dunque, come dimensione liberatoria e teatro dell’amore, non un mero sfondo bucolico ma un catalizzatore del desiderio. Amore che, per Russell, non è mai svincolato dalla morte. Èros e thànatos. Opposti e complementari. L’atroce visione dei cadaveri avvinghiati dei due sposi novelli, la sorella di Gerald e l’amato annegati nel lago dei Crich, è un requiem presago di sventura che accompagna, a mo’ di sottofondo, l’intera pellicola. E non è casuale che l’immagine tetra dei due corpi sia stata raccordata, alla moviola, all’abbraccio di Ursula e Rupert al risveglio dalla prima notte trascorsa insieme, nel bosco, e dal primo amplesso.
Oltre alla natura, a sciogliere lo spirito dai catenacci delle imposizioni e delle imposture sociali, vi è l’arte. I volumi sbozzati da Gudrun si pongono, probabilmente, in continuità con quelli che, nell’anteguerra, scolpiva Henri Gaudier e che, tre anni dopo, scolpirà il Gaudier di Russell in Messia selvaggio. È nella scultura che Gudrun esterna il suo vero essere, come ogni artista nella sua arte. Gudrun, sorella minore dei molti creativi raccontati da Russell nei documentari per il piccolo schermo, è, in fondo, nonostante la sua identità finzionale, l’anticipatrice dell’ingegno che i personaggi russelliani a venire, realmente vissuti e con gran dispendio di genialità, riverseranno nella musica, nella letteratura, nel loro settore. Lo spezzone in cui Gudrun e Loerke mimano la prima notte di nozze di Pëtr e Antonina Čaikovskij, trascorsa in treno, è già, d’altronde, un invito all’Altra faccia dell’amore, tanto più suggestivo se si considera che la stessa Jackson reciterà nel ruolo di Antonina.
Un talento dimostrato da Russell in Donne in amore è relativo, come ampiamente riconosciuto, alla direzione d’attori. E accanto ai già citati Bates, Jackson, Reed, sarebbe ingiusto trascurare Jennie Linden, volto docile e inquieto di Ursula. Non raggiunse mai la fama dei tre colleghi ma si rivelò indubbiamente brava nel reificare la signorina Brangwen poi signora Birkin. Altri due elementi femminili del cast meritano, almeno, una menzione: Eleanor Bron, campionessa di spocchia e alterigia nelle vesti di Hermione, una radical chic, come la definiremo oggi, e Catherine Wilmer, l’attempata matriarca dei Crich, ormai esule nel mondo parallelo dell’alienazione mentale.
Scartabellare i credits è sempre interessante per le scoperte che si possono compiere. Ad esempio, il commento musicale firmato dal leggendario Georges Delerue, il compositore della Nouvelle Vague. Mentre a conferire un tocco di eleganza sartoriale sono gli abiti di una certa Shirley Ann Kingdon, meticolosa costumista di Russell dagli inizi a Valentino, nonché prima delle sue quattro mogli (da qui, Shirley Russell).
Nel 1989 il regista girerà la trasposizione del romanzo di Lawrence L’arcobaleno, datato 1915, dove si narrano gli antefatti di Donne in amore. Jackson riapparirà nel ruolo della madre di Gudrun e Ursula. Nel 2011, invece, la BBC ha trasmesso lo sceneggiato Women in Love, ultima riduzione del testo, che nulla c’entra con Russell.
A oltre quattro decenni dall’uscita in sala, Donne in amore conserva ancora lo smalto dei film che il tempo non ha usurato. Forse perché, come ogni classico che si rispetti, ha colto una scintilla di universalità nel particolare, addentrandosi nei penetrali dell’essere umano fino ad attingere tormenti sempre attuali. “L’Eros è incerto/ e d’intesa dubbiosa” verseggiava Dario Bellezza nell’Avversario, citazione che potrebbe prestarsi come esergo a una nuova proiezione. L’incertezza e il dubbio assalgono la povera Ursula nel finale: l’incertezza davanti a un intrico tanto ingargugliato quanto lo sono i sentimenti, il dubbio di essere stata esclusa da una porzione importante dell’anima di Rupert. Ecco, allora, riaffacciarsi l’interrogativo di partenza: è possibile accogliere in sé due forme d’amore così dissimili?
Non è impossibile”.

Dario Gigante

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