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Angels of Revolution

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VOTO: 9

La rivoluzione tradita

Gli angeli di Fedorchenko volano davvero alto. Ma sono creature angeliche un po’ particolari, non certo da presepe: altro che stella cometa, hanno una stella rossa sul berretto, sono passati attraverso l’esperienza dei soviet e cercano di tenere in vita il loro entusiasmo rivoluzionario anche in un’epoca difficile, dominata dall’ombra lunga di Stalin e di quella burocrazia sovietica allontanatasi già dalle reali esigenze del proletariato, barattate con un tetro conformismo e con l’ormai inarrestabile deriva autoritaria. In una delle sequenze maggiormente icastiche del film, li vediamo svolazzare sul serio all’esterno di un piccolo appartamento russo, vicino alla finestra dalla quale occhi curiosi li osservano. Simili slanci visionari sono assai frequenti nel cinema di  Aleksej Fedorchenko, autore immenso che sa coniugare narrazioni di un certo spessore con un’estetica personalissima e naif, tra le poche ad avere risvolti così liberi, originali e creativi, da stagliarsi presso l’odierno immaginario cinematografico nel segno dell’unicità.

Quei pittoreschi “tableaux vivants”, che della poetica dell’autore sono parte integrante, si dipanano nella circostanza tra momenti storici diversi. Escludendo magari la folgorante irruzione del reale, nella piccola chiusa ambientata al giorno d’oggi, l’alternanza del presente filmico e di un passato prossimo guardato già con nostalgia dai protagonisti tocca punte di estremo e stralunato lirismo, pur ispirandosi in parte a episodi realmente accaduti. Vi è un fondo di veridicità storica in questa spedizione nei lembi più settentrionali dell’Unione Sovietica, territori (scarsamente) popolati da genti rimaste legate ad antichissime ritualità e arcaici stili di vita; quali sono per l’appunto gli Ostiachi e i Nenezi immaginificamente descritti nel film, parenti prossimi (in quanto dello stesso ceppo ugro-finnico) di quei Mari celebrati con analoga spregiudicatezza visiva in un precedente capolavoro di Fedorchenko,  Spose celestiali dei Mari di pianura. Così come nello stesso Silent Souls ad essere riaffermata è la fascinazione dell’autore per la sopravvivenza di una cultura pagana residuale, per l’intima connessione con la natura di certi riti sciamanici, per la non omologazione offerta da quei valori tradizionali, che ancora aleggiano tra gli abitanti della splendida taiga siberiana. Una fascinazione che ci sarebbe davvero difficile non condividere.

Eppure, lo accennavamo poco fa, tali retaggi culturali vengono rielaborati in Angels of Revolution  (Angely Revoluciji, in russo) per assecondare anche la trasfigurazione, a tratti grottesca, di un conflitto dagli esiti particolarmente drammatici. Siamo nell’epoca della russificazione forzata e di altri tragici esperimenti sociali tentati dal grigio apparato staliniano. Pare infatti che nel 1934 alcuni compagni dotati di varie competenze artistiche, scientifiche ed intellettuali, tra cui la protagonista Polina Schneider  (deliziosamente interpretata da Daria Ekamasova, graziosa e struggente nei panni della generosa eroina sovietica), vennero spediti in quei territori a propagandare i valori del Socialismo. Ma era ormai una “rivoluzione tradita” (per usare la cosi calzante definizione coniata da Trotsky), quella di cui si facevano portavoce. E così molto presto la situazione sfuggì loro di mano…
Fedorchenko amplifica la portata di tale aneddoto, utilizzando un registro tragicomico e superlative invenzioni visive per rendere palpabile una continua tensione dialettica, che nel rapsodico susseguirsi dei flashback e dell’avventura siberiana vede scontrarsi lo spirito più genuino, passionale e profondamente umanista del Bolscevismo delle origini, con la sua successiva degenerazione. La leggiadria con cui nel film si citano il formalismo del cinema di Sergej Ejzenštejn e Dziga Vertov, l’invenzione del theremin, l’imporsi del Suprematismo nelle arti figurative, è un qualcosa poi che colpisce dritto al cuore e alla testa.

Stefano Coccia

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