Il fattore umano
Che il cinema italiano abbia nella fase di scrittura dei film il suo principale tallone d’Achille è cosa ormai del tutto acclarata. Non fa eccezione nemmeno l’opera seconda di Claudio Noce La foresta di ghiaccio, presentata nell’ambito della sezione competitiva “Cinema d’Oggi” del Festival Internazionale del Film di Roma edizione 2014. Ciò premesso, nel caso specifico è necessario operare alcuni distinguo. Come si evince anche dal titolo, il film non è una commedia e non cerca la complicità passiva del pubblico, bensì il suo pieno coinvolgimento emotivo, trattandosi alla fine di una sorta di noir dalle evidenti sfumature esistenziali. Qualcosa, cioè, di profondamente differente dalla gran parte dei film di produzione tricolore usciti sul nostro territorio negli ultimi anni. Claudio Noce – di cui ricordiamo volentieri l’esordio con il bel Good Morning, Aman (2009), pellicola con la quale La foresta di ghiaccio condivide alcune delle tematiche di fondo – ha il coraggio di osare, di gettarsi a corpo morto in un genere a forte rischio anche perché da tempo non più nelle grazie degli spettatori paganti.
La buona regia di Noce riesce a catturare bene la rarefatta atmosfera che si respira in un imprecisato paesino delle Alpi. Si avverte come la maestosità del paesaggio, il freddo agiscano sulla persone, determinandone distanze e reciproche diffidenze. Il versante antropologico del film, insomma, funziona in modo egregio, in special modo nella fase d’introduzione dei personaggi principali, dopo un tragico prologo avvenuto venti anni orsono. Nel quale ci viene raccontata un’altra storia di immigrazione, di traffici umani destinati purtroppo a ripetersi anche nel presente, con una circolarità degli accadimenti storici che dovrebbe far riflettere più di qualcuno, ben oltre il significato simbolico del film. Stavolta Noce prende di petto il tema sempre vibrante dell’immigrazione clandestina, a qualsiasi latitudine italiana esso si presenti. E il suo atto d’accusa riesce – anche per merito di una regia attenta nel sottolineare enfaticamente i momenti topici del lungometraggio, soprattutto nel finale – a colpire senza risultare spettacolare in modo sterile. Poi però, per realizzare un grande film ci dovrebbe essere una sceneggiatura che sappia mantenere uniformità di toni e verosimiglianza per tutta la durata dello stesso. E questo, ne La foresta di ghiaccio, rimane solamente nulla più di un auspicio, di una vaga utopia. La trama gialla scricchiola ripetutamente – l’improvvisa sparizione del personaggio di Lorenzo, interpretato da Adriano Giannini, è malamente priva di una motivazione di fondo – mentre la sete di vendetta che anima Pietro (Domenico Diele) viene colpevolmente taciuta in nome di una pseudo sorpresa finale che tutto si può considerare tranne che imprevedibile. Uno svelamento graduale avrebbe forse giovato all’empatia nei confronti del personaggio, alla sua metamorfosi da vittima a carnefice; così, al contrario, egli resta distante e un po’ sfocato agli occhi della platea. Altro personaggio che avrebbe richiesto una descrizione maggiormente accurata è quello dell’agente di polizia Lana, interpretata (bene) da Ksenia Rappoport. Perché si è infiltrata nella comunità, visto che il suo superiore minaccia ad ogni incontro di toglierle l’incarico per mancanza di indizi? D’accordo, non è l’aspetto prioritario del film. Ma uno script attento ai dettagli avrebbe certamente contribuito al miglioramento dell’esito finale. Unico a svicolare dalle trappole di una sceneggiatura – scritta a sei mani, comprese quelle di Noce – sempre in precario equilibrio è Emir Kusturica (Secondo, nel film); il quale, da vecchia volpe del cinema quale è, dipinge il suo personaggio sul filo di un’ambiguità a tratti davvero convincente.
Davvero un peccato, dunque, nutrire delle non trascurabili riserve. Perché La foresta di ghiaccio contiene sottotesti che andrebbero valutati con la massima attenzione. Compreso l’efficace finale, in cui si ribadisce ancora una volta come il concetto soggettivo di giustizia sia molto spesso eticamente migliore di quello contenuto nei vari, aridi, codici ai quali ci si dovrebbe attenere. Non l’unica chiave di lettura esplicitamente morale di un film che, nonostante gli ingombranti difetti, merita senz’altro la chance di una visione.
Daniele De Angelis