Irraggiungibile serenità
Si è parlato molto, durante la Berlinale 2018, del lungometraggio An Elephant Sitting Still, presentato all’interno della sezione Forum, nonché opera prima del giovane cineasta cinese Hu Bo, il quale, immediatamente dopo la realizzazione di questo suo importante lavoro, si è tolto la vita. E proprio questo sordo pessimismo che ha portato il regista a un gesto così estremo, è più che tangibile nella presente opera, proiettata in anteprima italiana alla tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, all’interno della sezione Tutti ne parlano.
Un’opera, dunque, estremamente personale, ma anche incredibilmente impegnativa, date le sue quasi quattro ore di durata. Quattro ore che, però, si fanno del tutto necessarie a mettere in scena tre storie di tre persone sole. Sono queste le storie di Wei Bu – adolescente che, al fine di difendere un suo amico, spinge dalle scale un bullo della scuola, riducendolo in fin di vita – di Wang Jin – sessantenne che viene scacciato dalla sua stessa casa e, al fine di scampare all’ospizio, si allontana insieme alla sua nipotina – e, infine, di Huang Ling – compagna di scuola di Wei Bu, la quale si trova costretta ad allontanarsi dopo la diffusione di un video che la vedeva in atteggiamenti intimi con il vicepreside del suo liceo. Tre solitudini, tre persone lasciate a sé stesse e che hanno perso ogni fiducia nei rapporti umani. Apparentemente molto lontani gli uni dagli altri, i tre hanno, tuttavia, una finalità in comune: quella di raggiungere la città di Manzhouli, in cui, all’interno di un circo, si trova un elefante che passa le sue giornate semplicemente seduto, quasi indifferente al resto del mondo.
Ed è proprio quello che l’elefante – secondo le antiche tradizioni orientali – sta a simboleggiare, ciò che i tre protagonisti cercano disperatamente, senza trovarlo né nelle persone che stanno loro vicino, né tantomeno nelle istituzioni. Si tratta, appunto, di forza, di saggezza, di ponderatezza. L’elefante del circo di Manzhouli – tanto difficile, addirittura impossibile da raggiungere – sta a rappresentare per loro tutto ciò e, allo stesso tempo, forte della sua calma e del suo stare placidamente seduto per tutto il giorno, rappresenta anche quella pace, quella tranquillità interiore tanto difficile da raggiungere. Ma a quale prezzo cercheranno i tre di perseguire il loro scopo?
Tutto sembra remare contro gli intenti dei protagonisti, ogni cosa sembra scorrere per il verso sbagliato, in un forte pessimismo che non fa intravedere via d’uscita alcuna. E tale veduta si rispecchia perfettamente con la stessa, incredibilmente matura messa in scena, dove il grigio della città (della quale non conosciamo il nome e della quale ben poco ci è dato a vedere, data la scelta registica di mantenere la macchina da presa quasi sempre vicinissima ai personaggi) sembra inghiottire i protagonisti stessi, trasmettendo allo spettatore un forte senso di claustrofobia, oltre all’idea di un’imminente morte interiore. E così, senza particolari virtuosismi registici, con un commento musicale ridotto all’osso, il regista si fa sapiente cantore di questi tre drammi umani, riuscendo, allo stesso tempo, a infondere al tutto anche una certa poesia. Una poesia e un lirismo tipici di (quasi) tutto il cinema orientale e che, persino all’interno di un lungometraggio come An Elephant Sitting Still, riescono perfettamente ad amalgamarsi a quel pessimismo di fondo che si fa quintessenza dell’intero lavoro. E che ha portato, infine, lo stesso Hu Bo a togliersi la vita.
Marina Pavido