Nel cuore di Roma
Da tempo, seguendo la scia tracciata da Gianfranco Rosi, il documentario italiano ha smesso di essere semplice osservazione del reale per ibridarsi in un mix di finzione e verità. Non si sottrae a tale impulso sperimentale nemmeno Ab Urbe Coacta, lungometraggio ambientato nella Roma più profonda autentica che punta l’obiettivo della macchina da presa – mediante una forma di pedinamento quasi “zavattiniana” – su Mauro Bonanni detto “Barella”, gestore di un’autodemolizione nella popolare zona di Tor Pignattara e Certosa, nonché appassionato di corse motociclistiche. Una persona la quale, nelle intenzioni del regista esordiente Mauro Ruvolo, dovrebbe rappresentare la classica sineddoche, cioè la parte per il tutto di una Capitale in teoria sonnacchiosa e invisibile ma al contrario vitale e ruspante. Scelta di certo azzeccata: perché la figura di Bonanni si racconta e viene raccontata nella sua essenza di essere umano ricco di sfumature e contraddizioni in apparenza irrisolvibili (ad esempio razzista sul piano verbale, in concreto molto amico di alcune persone di colore), ma che contribuiscono a renderlo un personaggio capace di bucare lo schermo proprio in virtù della sua sincerità assoluta. E costituiscono di certo i momenti migliori del film, quelli in cui la telecamera digitale di Ruvolo si insinua in un habitat quasi pasoliniano aggiornato ai tempi che viviamo, dove lo stesso Bonanni – ormai avviato alla terza età – rimarca in prima persona i cambiamenti rispetto al quartiere in cui è cresciuto. L’aumento esponenziale della popolazione straniera, lo stato di apparente abbandono di alcuni luoghi in passato brulicanti di vita; una sorta di “mutazione genetica” quasi naturale nella propria inevitabilità assume duplicità di significato grazie alle immagini e alla parole sovrapposte dello stesso Bonanni, a commentare salacemente ciò che vediamo come fosse un Cicerone improvvisato. Il dialetto romanesco, carico di epiteti e insulti vari, diviene unica forma di comunicazione possibile in tale contesto, non solamente elemento di folclore del quale un non romano potrebbe anche sorridere. Invece è proprio tra le righe di quelle, colorite, espressioni che è possibile rintracciare il profondo significato socio-politico di Ab Urbe Coacta: quello di dare voce alle persone dimenticate da sondaggi e classi dirigenti ma che conoscono la vita grazie alla pratica sul campo, per viverne la quotidianità ogni giorno che passa.
Qualche perplessità desta invece la tendenza a fare di Bonanni un personaggio cinematografico a tutto tondo. Anche perché tali momenti non si innestano in modo fluido nell’economia di una narrazione che si vorrebbe, al contrario, improntata al massimo rispetto del reale. La telefonata con la madre in cui lui le offre una dichiarazione di affetto mai dimostrata prima, oppure il catartico viaggio in Benin nell’epilogo, in quell’Africa tanto vilipesa a parole ma in fondo apprezzata nell’intimo, danno l’impressione più di scelte di sceneggiatura che non intenzioni effettive del protagonista di un documentario. Nei lavori – tipo gli ultimi, premiatissimi, Sacro GRA e Fuocoammare – del già menzionato Gianfranco Rosi risulta impresa complessa separare gli elementi di finzione dal contesto; in Ab Urbe Coacta la cosa si rivela assai più facile, segno che Ruvolo deve ancora affinare la propria arte affabulatoria sia pure nel genere di appartenenza.
Il primo sguardo è comunque più che degno di nota, nella speranza che il suo film – al pari di molti altri documentari tricolori – venga visto da un pubblico più vasto possibile. Al di là dei circuiti festivalieri come il Torino Film Festival 2016, dove il lungometraggio della durata di un’ora e un quarto è stato presentato nella sezione TFF Doc/Italiana.Doc.
Daniele De Angelis