Dove non volano le mosche
Una buona idea, al giorno d’oggi, può veramente dare origine ad un nuovo filone cinematografico. L’impresa è riuscita ad A Quiet Place – Un posto tranquillo, lungometraggio del 2018 diretto, scritto (in cooperazione) ed interpretato da John Krasinski, in cui a risaltare erano le caratteristiche peculiari della classica invasione aliena: mantenere un assoluto silenzio, a meno che non si desideri essere aggrediti e finire in pasto agli invasori, dalla forma semi-aracnide. Dal successo, al botteghino, del capostipite sono scaturiti una serie di cloni, tipo The Silence (2019) di John R. Leonetti, di qualità inferiore e collocati direttamente sulle varie piattaforme di streaming. Più che logico, dunque, attendersi un rapido sequel, la cui uscita è stata purtroppo ritardata dai noti eventi pandemici che hanno funestato – e continuano a farlo – l’intero globo. Una situazione che probabilmente, come rovescio della medaglia, aiuta A Quiet Place 2 a ricreare nella mente dello spettatore quel senso di claustrofobico isolamento al quale sono sottoposti i personaggi del film.
Il prologo di questo seguito, prima di riprendere le fila della narrazione rispetto al primo film, ci riporta al fatidico giorno uno, quello dell’inizio dell’invasione. Nel cielo oscurato si stagliano strane figure; allo smarrimento della famiglia Abbott si somma quello degli altri membri della popolazione della cittadina statunitense scelta come sineddoche dell’intero pianeta. Poi l’attacco delle creature, improvviso e letale. Un incipit di esemplare tensione che rende bene l’idea di ciò che attenderà il fruitore per tutto il resto del film: una suspense costante, causata dalla minaccia sempre incombente, unisce idealmente personaggi e spettatori; perché la minima distrazione – e conseguente rumore – potrebbe risultare fatale. Un espediente narrativo ormai acquisito ma sempre efficace.
Alle volitive donne della famiglia, rimasta orfana della figura maschile adulta, si aggiunge il concittadino Emmett (un ottimo Cillian Murphy), il quale avrà una parte rilevante nell’intreccio. E nel cambio attoriale, ci perdonerà Krasinski per la franchezza, la platea ci ha certamente guadagnato.
La questione inerente a questi due film diventa allora un’altra, per provare ad imbastire una qualsiasi disamina critica. Se sia cioè sufficiente realizzare un’opera altamente professionale in ogni suo aspetto tecnico (ineccepibilmente spettacolare la regia di Krasinski, di alto livello la recitazione dell’intero cast, montaggio efficace, fotografia impeccabile nonché un ottimo sound design, indispensabile all’uopo) per considerare A Quite Place 2 un lungometraggio del tutto riuscito. E la risposta può dirsi affermativa solamente concentrando l’attenzione sul versante del puro intrattenimento; poiché anche questo seguito, seguendo le sorti dell’originale, si adagia sui classici stereotipi del genere, non approfondendo nessuno dei numerosi spunti presenti a livello potenziale. Solo pigramente accennato, tanto per fare un esempio, l’aspetto che vede il vero nemico risiedere (anche) nella natura umana: in un mondo votato esclusivamente alla sopravvivenza vengono a cadere pilastri fondamentali della vita in comune quali solidarietà e altruismo, almeno in larga parte. Sarebbe bastato questo a fornire ad A Quite Place 2 uno sfondo morale in grado di aumentare empatia e pathos; al contrario l’evoluzione narrativa pare svolgersi in modo meccanico, più per inerzia che per effettivo cambiamento dei – e nei – personaggi. Peccato, anche perché le premesse, confermate dall’epilogo, lasciavano trasparire, tra le altre cose, le possibilità di un emozionante coming of age relativo ai due giovani adolescenti della famiglia Abbott. Un po’ il difetto che affligge la maggior parte delle produzioni targate Michael Bay, molto più orientate verso una spettacolarità fine a se stessa che alla realizzazione di un prodotto cinematografico in possesso di una qualche caratteristica unica.
Una natura di film-giocattolo che A Quite Place 2 finisce dunque con il lambire pericolosamente, evitandola solo grazie all’estrema drammaticità che trapela dalla descrizione di un contesto capace di rispecchiare, fortunatamente solo in minima parte, ciò che la dura realtà è in grado di proporre.
Daniele De Angelis