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A Quiet Place – Un posto tranquillo

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VOTO: 6.5

Un mondo di cristallo

Parte da una premessa narrativa quasi favolistica, almeno per i tempi che corrono, A Quiet Place – Un posto tranquillo: quella cioè di un mondo privo di inquinamento acustico dove i soli rumori che si sentono, escludendo persino il bla bla umano, risultano essere solo quelli emessi da madre natura. Tutto troppo bello. E infatti, essendo l’opera terza da regista dell’attore John Krasinski, che segue la discretamente riuscita e amara commedia famigliare The Hollars, una sorta di thriller fantascientifico, si scopre immediatamente che la Terra – o almeno quella parte di Stati Uniti che fa da teatro all’azione – è stata invasa da una forza aliena e che tali, voracissime, creature sono del tutto cieche ma posseggono in compenso un udito assai sviluppato, che le porta ad attaccare con inaudita ferocia chiunque emetta il minimo suono. In tale scenario post-apocalittico tenta disperatamente una strada per la sopravvivenza, in rigoroso silenzio, la famiglia Abbott, composta da padre, madre e tre figli, con variazione di numero nel corso del film, tanto per non spoilerare oltremisura.
Come si evince dal plot A Quiet Place non è il solito lungometraggio di genere finalizzato ad un più o meno riuscito intrattenimento commerciale; tutti gli escamotage della storia, infatti, conducono ad un apparato teorico affatto banale sulla imprescindibilità della visione attiva come autentico strumento di sopravvivenza. Quindi ad un ipersviluppo forzato di quel senso usato anche, in prevalenza, nella fruizione cinematografica. Tutta la comunicazione, quindi, in primis quella tra i membri della famiglia, è affidata allo sguardo reciproco ed al linguaggio dei segni. Fattore che creerà non pochi problemi di rapporto soprattutto tra adulti e adolescenti/bambini. Se a ciò si aggiunge la lettura extra-diegetica che vede i coniugi (nella vita reale) Emily Blunt e John Krasinski recitare per la prima volta assieme in un film dove interpretano una moglie ed un marito catapultati in una situazione completamente fuori dall’ordinario, si capisce bene come il quadro d’insieme di A Quiet Place risulti, a dir poco, assai stimolante. Tutto confermato in una sorvegliatissima prima parte di film che dimostra di essere un’autentica “macchina” generatrice di genuina suspense, soprattutto quando – regola aurea dai tempi del grande Hitchcock, ripresa con fedeltà assoluta da un film per molti versi affine come Signs (2002) di M. Night Shyamalan – degli alieni si percepisce solo la minaccia senza mostrarli nel dettaglio. Oltre naturalmente alle chiavi di lettura teoriche aggiuntive sin qui sommariamente enunciate.
Poi però le leggi del genere prendono il sopravvento e la seconda parte di A Quiet Place imbocca la strada dell’inevitabile scontro frontale tra famiglia e predatori alieni, dando sin troppo spazio a creature niente affatto originali nella loro creazione alla computer graphic e soprattutto accumulando una serie di situazioni retoriche tra eroismo e sacrificio sin troppo prevedibili in perfetto stile Michael Bay, qui relegato a ruoli produttivi. Il rischio che corre A Quiet Place è quello di somigliare in maniera eccessiva ad un epigono spurio della saga Cloverfield in generale, nonché ad un quasi sequel del non trascendentale 10 Cloverfield Lane di Dan Trachtenberg (2016) in particolare, del quale mutua anche un prevedibilissimo significato finale con epilogo sospeso che vede le donne di famiglia pronte al combattimento definitivo contro la minaccia incombente. Va benissimo rivalutare il ruolo femminile anche in questo tipo di film; però da A Quiet Place, dopo quanto seminato, ci si sarebbe aspettato uno slancio di originalità certamente maggiore nella conclusione. Resta comunque da godere, con un pizzico d’amaro in bocca per il traguardo mancato di cult-movie al quale A Quiet Place ambiva, la sapiente costruzione di un lungometraggio che, al tirar delle somme, offre allo spettatore tutto quello che un’opera di questo tipo possa prevedere. Non però moltissimo di più, come ad un certo punto della visione sarebbe stato più che lecito sperare.

Daniele De Angelis

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