Bloody Saturday
Il 22 luglio del 2011 è un giorno di dolore e di memoria per i norvegesi, ma non solo. Quel sabato di un’estate di sette anni fa è destinato a rimanere impresso per sempre negli occhi, nei cuori e nelle menti di tutti coloro che ne sono stati testimoni diretti o indiretti. In quel giorno di cinque anni fa, un duplice attentato nel quartiere governativo al centro di Oslo e nell’isola di Utøya provocò la morte di 77 persone, ma a differenza di quanto si pensò nelle prime ore non si trattava dell’ennesimo attacco jihadista nei confronti della Società Occidentale. A compiere il massacro fu un cittadino norvegese di 32 anni, simpatizzante di estrema destra, di nome Anders Behring Breivik, giudicato in seguito sano di mente, che affermò di avere operato “per fermare i danni del Partito Laburista” e bloccare “la decostruzione della cultura norvegese a causa dell’immigrazione di massa dei musulmani”. Di fatto, si tratta dell’atto più violento mai avvenuto in Norvegia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, destinato a lasciare una ferita profonda nella Storia del Paese scandinavo. Un atto, questo, la cui cronaca dei cruenti avvenimenti e quella giudiziaria è ormai tristemente nota, con quindi rivelare i dettagli e gli highlights del racconto portato sul grande schermo da Paul Greengrass in 22 July non significa spoilerarne i contenuti.
Nella sua ultima fatica dietro la macchina da presa, presentata in concorso alla 75esima Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia e prossimamente in contemporanea su Netflix e in sala, il cineasta britannico ha raccontato il prima, il durante e soprattutto il dopo attacco terroristico di Breivik e per farlo si è appoggiato alle pagine di “One of Us” della giornalista Åsne Seierstad. Il risultato è una cronaca più o meno romanzata dei veri accadimenti, sviluppata dall’autrice del libro e da Greengrass lungo un percorso temporale che dalle ore che hanno preceduto gli attentati giunge sino al processo e alla conseguente condanna del responsabile. Il tutto con un palleggio continuo e insistito tra una serie di personaggi chiave che hanno gravitato a vario titolo in un dramma corale dove il male e il bene, il carnefice e le vittime, hanno visto i loro destini incrociarsi in maniera fatale.
La pellicola del regista britannico va dunque nella direzione opposta a quella percorsa dal collega scandinavo Erik Poppe che per dar vita al suo Utøya 22. Juli, presentato in Concorso alla 68esima edizione della Berlinale, ha puntato su una direzione ben precisa, tanto narrativa, quanto drammaturgica ed estetica. Da parte sua, Poppe restringe l’arco spazio-temporale e circoscrive la narrazione in una timeline di 87’, tanti quanti sono stati quelli in cui si è consumata la vera mattanza sull’isola. Quanto accaduto ore prima a qualche km di distanza in quel di Oslo, invece, è affidato a un breve incipit affidato alla potenza devastante dei materiali di repertorio. Di fatto, qui si passa da una polifonia di punti di vista a un racconto in P.O.V. lineare e in piano sequenza, con la macchina da presa che si incolla alla diciannovenne Kaja, baricentro del film e personaggio totalmente inventato così come tutti quelli presenti al momento della strage, costruiti però sulla base delle testimonianze raccolte dai veri sopravvissuti.
Greengrass, al contrario, allarga e dilata gli orizzonti della narrazione sino al processo, moltiplica le prospettive sino a farle confluire ed entrare per ben due volte in rotta di collisione nell’inizio e nell’epilogo. Per farlo, l’autore concentra e comprime le fasi degli attacchi terroristici nei primi 30’ per dedicare la restante ampia fetta del racconto filmico al doloroso percorso di recupero dei sopravvissuti, alla lotta dei familiari i cui cari sono caduti sotto il fuoco di Breivik e all’indagine condotta dal regista inglese per provare a comprendere i motivi di quel gesto efferato. In 22 July, l’approccio alla materia, contrariamente alle aspettative e al modus operandi di Poppe, epura la violenza, circoscrivendola unicamente ai pochi minuti dedicati alle aggressioni e presenti sulla timeline. Questo perché quello in questione è un film che parla e vuole parlare soprattutto del post e delle ferite ancora sanguinanti nelle menti, come un’emorragia che non riesce ad arrestarsi. E tale scelta passa per la decisione di approfondire la componente psicologica e di limitare a piccoli momenti la rappresentazione della violenza, ma senza esasperarla o edulcorarla al fine di preservare intatto quel rispetto che in molte operazioni analoghe viene giocoforza meno per essere immolato sull’altare della spettacolarizzazione e dell’eccesso. In questo modo, Greengrass trova un equilibrio, forse un tantino più democratico e razionale rispetto a precedenti come Bloody Sunday, United 93, Captain Phillips e Green Zone, così da mantenersi in linea di galleggiamento in una zona di sicurezza da dove sferrare fendenti di denuncia contro ogni tipologia di radicalizzazione politica, sociale, religiosa e ideologica. Quanto basta per alimentare un’opera che va vista come una forma di meditazione su quanto accaduto e sui suoi motivi scatenenanti.
Francesco Del Grosso