Cronaca sull’avidità umana
Il primo aspetto che scaturisce dalla visione di 1945 di Ferenc Török è che il cinema ungherese sta vivendo un’interessante e fervida stagione cinematografica, riuscendo a produrre pellicole di grande prestigio. Molto probabilmente è azzardato parlare di una “Nouvelle Vague” magiara, ma le poche opere che sono uscite dai confini dell’Ungheria confermano che c’è del cinema di qualità. Ad esempio, in quest’ultimo quinquennio, tra le varie produzioni ungheresi due opere hanno marcato sensibilmente e profondamente questa “nuova ondata”, e cioè Il grande quaderno, diretto da Janosz Szasz nel 2014; e Il figlio di Saul realizzato da László Nemes nel 2015 (Grand Prix al Festival di Cannes). E la pellicola 1945 conferma anche, allineandosi alle sopracitate opere, come la Seconda Guerra Mondiale sia un tema prediletto da investigare e filmare. Il film di Török, al momento, va a forgiare una stimolante chiusura a un’ideale trilogia, insieme ai film precedenti, su come si è rapportato il popolo ungherese con le vicissitudini di quella guerra, e su come l’animo umano si sia inasprito con le violenze che vi imperavano.
Tratto dalla breve novella “Homecoming” di Gábor T. Szántó, che collabora anche alla sceneggiatura assieme a Ferenc Török, 1945 investiga su un immaginario fatto che accadde in un piccolo paese dell’Ungheria, come ne sono accaduti di simili in altri paesi di altri stati. La vicenda – fittizia – si svolge tutta il 12 agosto del 1945, cioè quando la Seconda Guerra Mondiale stava definitivamente concludendosi (il 9 agosto gli americani sganciarono la seconda bomba atomica sulla città di Nagasaki). Tale precisazione di data ci viene dettata a inizio film attraverso uno speaker della radio, creando un “sussurrato” escamotage per marcare come l’immaginaria storia sia precipitata dentro i reali fatti storici. E tale scena marca anche come il protagonista István, interpretato da Péter Rudolf, non badi al notiziario, ma continui con cura a farsi la barba pensando al suo tornaconto personale. Suddetto comportamento ci sarà anche successivamente quando spegne con astio la radio del bar, perché non vuole sentire le notizie sulla guerra. Ma come lui, anche i compaesani non vogliono pensare agli ultimi episodi del conflitto, avendo già dimostrato, come si scoprirà successivamente, come ci si comporta e si sopravvive in tempi di guerra.
Fotografato in un raffinato bianco e nero con forti umori foschi e violenti, ad opera del veterano Elemér Ragályi, 1945, seppure completamente ambientato all’aria aperta, ha le perfette fattezze di un claustrofobico kammerspielfilm, svolgendosi la vicenda in un piccolo paese raccolto e con una manciata di personaggi. La storia misteriosa e tesa, che si svelerà solo nel finale, viene diretta da Török in modo attento e senza sbavature, centellinando il turbamento che si abbatte improvvisamente sul paese. Il regista fa procedere la vicenda lentamente, con un andamento simile a quello della carrozza che trasporta i due misteriosi bauli, e seguita dai due imperscrutabili ebrei. Però dietro questa “quiete” stilistica, Török fa agitare interiormente il conflitto che si viene a creare, e punta la macchina da presa sui vari personaggi come uno stiletto, scrutando le varie espressioni e i differenti atteggiamenti che si palesano con l’improvviso arrivo dei due ebrei. Tutti sono colpevoli, e gli unici innocenti, o divorati dal rimorso, sono costretti a soccombere.
1945 si rivela un’apprezzabile pellicola che riesce a riflettere, attraverso uno stile “cronachistico” l’avidità umana. Certamente freddo nella realizzazione (risente molto degli umori narrativi e filmici di Bela Tarr), però ha il pregio di non cedere, visto il tema trattato, a scene concilianti o a un finale commovente.
Roberto Baldassarre