Un uomo solo in fuga
Tra i titoli in concorso nella sezione “Panorama Internazionale” della nona edizione del Bif&st non vi è alcun dubbio che 12th Man sia stato, al contempo, il film più commerciale e anche quello più spettacolare presentato nella competizione della kermesse pugliese. L’incipit, in tal senso, è di quelli che scoprono immediatamente tutte le carte in tavola, dichiarando apertamente al futuro fruitore a che cosa andrà incontro da lì alle prossime due ore e passa di visione.
La pellicola di Harald Zwart ha, infatti, nel DNA tutte quelle componenti adrenaliniche, balistiche, esplosive, eroiche e pirotecniche, che solitamente vanno a dare forma e soprattutto sostanza ai prodotti inscrivibili nel ricchissimo filone bellico. Da questo punto di vista, l’ultima fatica dietro la macchina da presa del cineasta olandese non delude, poiché porta sullo schermo un’odissea umana tra le linee amiche che riesce a tenere incollati alle poltrone gli spettatori di turno grazie alla capacità delle immagine di caricarsi di tensione e spettacolarità.
Quella raccontata da Zwart è del resto una vicenda che ha dell’incredibile e al quale si fa davvero fatica a credere. Eppure è tutto vero. La storia narrata è quella di Storia di un eroe di guerra norvegese, tale Jan Baalsrud e della sua leggendaria fuga dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, già portata sullo schermo da Arne Skouen nel 1957 con Le Rescapé. Per farlo, il regista ha riavvolto le lancette dell’orologio sino al 1943. Siamo nel nord del Circolo Polare Artico. Dodici partigiani in fuga su una barca con un carico di esplosivo, vengono traditi da un contadino del luogo e attaccati da un dragamine tedesco. Undici uomini vengono così catturati, torturati e uccisi. Solo il dodicesimo riesce a scappare. Nel cuore del freddo inverno, Jan Baalsrud fugge, senza sapere che la sua determinazione a sopravvivere lo trasformerà, suo malgrado, in un simbolo della resistenza norvegese. Un simbolo per cui c’è gente disposta a morire. La fuga leggendaria di Jan Baalsrud resta una delle storie di sopravvivenza più imperscrutabili della seconda guerra mondiale.
Il pericolo che un cineasta come Zwart, con all’attivo tutta una serie di esperienze oltreoceano poco esaltanti come Un corpo da reato, La pantera rosa 2, The Karate Kid – La leggenda continua e Shadowhunters – Città di ossa, trasformasse il tutto in un blockbuster a uso e consumo del mercato di genere di cassetta, era piuttosto elevato. Per fortuna non è andata così. Il ritorno in patria, a lui come a molti altri colleghi europei, ha fatto decisamente bene, mostrandoci finalmente quelle potenzialità ancora inespresse a causa delle soffocanti pressioni, imposizioni ed esigenze provenienti dalla produzione a stelle e strisce. In 12th Man la componente cinetica e spettacolare, alla quale spetta il compito di allargare il prodotto audiovisivo a uno spettro di potenziali spettatori più vasto, viene messa al servizio del racconto dell’odissea umana e militare del protagonista. Scene come il prologo iniziale dell’imboscata o quella della valanga garantiscono all’opera quella punteggiatura adrenalinica e di tensione che fa da controcampo emozionale alle parti più statiche, nelle quali l’azione lascia spazio ai passaggi più drammatici e duri della vicenda (le torture ai prigionieri, l’ispezione nel fienile e il salvataggio dopo la valanga). Insomma, esattamente il contrario di quanto non è riuscito a fare ad esempio John Moore con un film analogo come Behind Enemy Lines.
Francesco Del Grosso