Una carezza in un pugno
Tra i premi assegnati al termine di questo 20° Far East Film Festival, ve n’è uno che ci ha riempito particolarmente di gioia: il MYmovies Award, tributato quest’anno a The Empty Hands di Chapman To. Due sono i fattori da cui deriva il gran godimento da noi provato, di fronte a una scelta per certi versi inaspettata, visto che in sala il film era stato accolto da alcuni con entusiasmo e da altri con qualche perplessità. Il primo elemento, magari più effimero ma non trascurabile, è la notevole simpatia dimostrata dallo scatenato Chapman To nel rapportarsi sia con il pubblico di Udine che con lo staff del festival: entrambe le sue apparizioni sul palco hanno testimoniato una notevole carica di calore umano, personalità, buonumore. E poi, ovviamente, c’è il nuovo lavoro del carismatico artista di Hong Kong, impegnato nella circostanza sia come attore che come regista e sceneggiatore, capace quindi di esprimere da molteplici angolazioni quel modo di fare cinema senz’altro appassionato, per cui l’ambiente delle arti marziali rappresenta qui il veicolo, se non addirittura un pretesto, della progressione narrativa, mentre è la natura più profonda dei sentimenti il fine ultimo.
Ne deriva che quello cui abbiamo assistito è un film di arti marziali davvero sui generis. Con una parte finale totalmente spiazzante, tra l’altro, nel suo sfumare gradualmente il ritorno alle gare della protagonista, in favore di uno sguardo delicato e intimista sulla rinascita dei vari personaggi. Quasi una carezza in un pugno, The Empty Hands.
Costruito su ritmi insoliti per il filone al quale è riconducibile, tale lungometraggio rivela inoltre l’incredibile sensibilità di Chapman To nel rimescolare tra loro toni differenti, lasciando comunque sullo sfondo una passione sincera per gli ambienti rappresentati; siano essi il piccolo dojo dove i protagonisti si allenano oppure altri scorci di una Hong Kong popolare, lievemente malinconica, scrutata in ogni caso con enorme affetto. Al di là di questo aspetto in qualche misura identitario, The Empty Hands è anche però un film sulle alterità, sul loro precario relazionarsi, sull’altrettanto difficile superamento di solitudini e inadeguatezze varie. C’è infatti la figura della ragazza per metà giapponese, Mari (Stephy Rang), un po’ persa ad Hong Kong dopo la morte del padre venuto lì per altre ragioni ma attivo poi come maestro di karate, col quale aveva peraltro avuto non poche incomprensioni. C’è il silenzioso Mute Dog (Stephen Au) che sembra dialogare più con le pareti del dojo e con le sbiadite fotografie ivi custodite, di quanto non riesca a fare con le altre persone. E c’è poi il personaggio interpretato dallo stesso Chapman To, un tempo irrequieto allievo del padre di Mari, tornato lì da poco per sistemare alcune cose lasciate in sospeso, dopo il periodo discretamente lungo trascorso in carcere. Alternando accelerazioni di ritmo e pause maggiormente riflessive, il regista hongkongese ha saputo innanzitutto dare respiro a tali caratteri, lasciando il compito di aprire spiragli nelle loro corazze non a qualche sotterfugio melodrammatico, bensì alla conoscenza reciproca; per far correre poi in parallelo un certo, sentito amarcord, indubbiamente presente in quel continuo rapportarsi ai ricordi, ai piccoli affetti e ai luoghi della memoria.
Stefano Coccia