American Dream
Non è facile trovare commedie egiziane capaci di parlare ad un pubblico internazionale, ancora di più quando ironizzano su questioni di natura politica. La censura a quelle latitudini si sa non fa sconti a nessuno, tantomeno agli esponenti della Settima Arte. Il più delle volte chi è riuscito nell’impresa è dovuto scendere a compromessi, addolcendo e non poco la pillola. È il caso di Induced Labor, esordio dietro la macchina da presa dello sceneggiatore Khaled Diab, presentato al 29° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina dopo l’anteprima al Festival di Dubai 2018.
La pellicola scritta e diretta dal cineasta egiziano risente pesantemente di questo lavoro di ammorbidimento nel trattare tematiche delle quali ha provato a farsi portatrice sana, a cominciare dalla negazione dei diritti dei cittadini, tanto che dalla visione emerge con chiarezza il volere ma non posso di un autore che, giocoforza, ha dovuto sottostare alle rigide “regole d’ingaggio”. Il risultato è un film costretto suo e nostro malgrado a fermarsi a metà strada, percorrendo quel tratto consentito ma con il freno decisamente tirato. Questo ha fatto di Induced Labor una commedia in parte divertente, ma con un fondo drammatico di denuncia politica che avrebbe potuto dire molto di più e che al contrario è stato ampiamente circoscritto, ridimensionato e condizionato dai piani alti.
A conti fatti ciò ha pesato sull’economia generale dell’opera e sul peso specifico che avrebbe potuto avere se lasciata a briglie sciolte. Resta dunque l’amaro in bocca e un gran dispiacere poiché, al netto di una serie di fragilità nelle scrittura e di una messa in scena non sempre all’altezza della situazione in termini di credibilità, quello di Diab è un film dall’enorme potenziale inespresso, animato da un plot davvero interessante che oltre alle risate avrebbe potuto puntare ancora di più il dito contro tutta una serie di violazioni civili. Ci ritroviamo al seguito di una coppia egiziana pronta a tutto pur di ottenere il visto per gli Stati Uniti. Quando la moglie è quasi al termine della gravidanza, decidono di fare irruzione nell’ambasciata americana del Cairo e di partorire lì in modo da garantire al figlio la cittadinanza a stelle e strisce. Ma la situazione sfugge un po’ di mano…
Ciò che resta è un’action-comedy corale surreale e un pizzico grottesca in odore di Abrahams-Zucker, con punte di agrodolce quando ciclicamente si concede parentesi più serie (in particolare in prossimità dell’epilogo). Da parte sua, Diab preme più che può sul pedale della comicità e infatti è lì che si vedono le cose migliori (vedi la scena del finto dottore e le telefonate con i negoziatori), ma è quando prova a spingersi più in là andando a mettere la lingua sul dente che duole che si palesano gli ostacoli invalicabili.
Francesco Del Grosso