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Heidi

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VOTO: 6

Le caprette rifanno ciao

Ormai c’è di che rassegnarsi: non vedremo mai una versione per immagini del tutto fedele al romanzo ispiratore, ovvero il celeberrimo “Heidi”, scritto da Johanna Spyri nella parte declinante dell’Ottocento. Essendo il cinema sempre stato principalmente – e forse giustamente – business, si individua il target infantile e preadolescenziale del film e si confeziona il prodotto di conseguenza, smussando angoli nonché edulcorando l’insieme fino a raggiungerne la presunta essenza, cioè un piccolo racconto morale di iniziazione alla vita.
Anche quest’ultima versione per il grande schermo, intitolata ovviamente Heidi e firmata dallo svizzero Alain Gsponer – regista quarantenne specializzato in cinema per la tenera età, conosciuto in Italia per Un fantasma per amico del 2013 – non sfugge alla regola: la realtà deve essere mostrata ai bambini ben cucinata e speziata a priori. Ecco allora che le asperità della vita di montagna, assai presenti nelle descrizioni del romanzo, divengono oasi naturalistica da paradiso terrestre privo di serpenti tentatori; la misantropia del nonno (Bruno Ganz, per l’occasione), ritiratosi nel suo eremo montuoso a causa di soverchie difficoltà nel rapportarsi socialmente con la gente, viene cancellata dopo poche ore dalla conoscenza con la piccola e celeberrima orfanella, autentica taumaturga di qualsiasi problematica. Mentre, come ovvio, le differenze tra la vita rupestre e quella nella “metropoli” cittadina di una Francoforte già in pieno sviluppo industriale – l’ambientazione storica è sempre quella di fine diciannovesimo secolo – si riducono fondamentalmente alla “mala educazione” impartita alla piccola Heidi dalla caricaturale signorina Rottenmeier, tale catalizzatore di antipatia da suscitare persino tenerezza nello spettatore maggiormente scafato. Insomma, anche in questo film risalta tutto il fastidio di una visione preconfezionata e digerita, capace di far assurgere al grado di imperdibile must – e probabilmente molti continueranno a pensarla in questo modo – per la ricchezza di contenuti la famosa versione anime degli anni settanta a cartoni animati, cui diede il proprio prezioso apporto un Hayao Miyazaki agli inizi della propria meravigliosa carriera.
Nonostante ciò, soprattutto rapportando il lungometraggio di Gsponer ai magri tempi in cui viviamo da un punto di vista squisitamente pedagogico, la visione del nuovo film su Heidi per bambini di ogni età potrebbe ancora avere un senso. Quello di ritrovare un contatto con la natura ormai da tempo solamente teorico, sovrastato da una tecnologia in grado di creare solo una forma di dipendenza subdola perché asintomatica nei suoi aspetti più esteriori. Ma anche per godersi una caratterizzazione della piccola Heidi, da parte dell’esordiente Anuk Steffen, molto poco bamboleggiante e per questo intrisa di sincerità. Se l’attenzione rimane desta nel corso delle quasi due ore di proiezione lo dobbiamo quasi esclusivamente a lei, ad un personaggio ben interpretato dal quale traspare una contagiosa voglia di vivere l’esistenza a modo proprio, persino in grado di far apparire la (troppo?) repentina guarigione dell’amichetta di città Clara non come una sorta di miracolo dovuto alla purezza dell’aria alpina ma alla stregua di una logica conseguenza della determinazione affettiva di una bambina troppo grande per essere sepolta dalla zuccherosità programmatica di produzioni internazionali (europee, nella fattispecie…) come questa. Nella sua inarrestabile propensione all’emancipazione, Heidi diviene una sorta di piccola, simbolica, femminista ante-litteram, nel modo ovattato in cui probabilmente la sua “creatrice” Spyri l’ha sempre vista.
Per quanto riguarda invece il rimpianto sull’impossibilità di vedere una trasposizione letterale di uno dei romanzi-pilastro, piaccia o meno, dell’ iniziazione alla cultura di chi è stato bambino in un tempo ormai lontano, vorrà dire che ce ne faremo una ragione. Tante altre sono le cose più spiacevoli da sopportare, oggigiorno…

Daniele De Angelis

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