Lanterne e scarpette rosse
Presentato al Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina – FESCAAAL 2019, Youth è l’ultima opera del regista cinese Feng Xiaogang, l’autore di Un funerale dall’altro mondo, distribuito in Italia, di The Banquet, una trasposizione dell’Amleto presentata alla Mostra di Venezia nel 2006, e di I’m Not Madame Bovary. Non c’è paese forse al mondo come la Cina che abbia subito trasformazioni sociali così profonde e radicali, e in così poco tempo, passata dal socialismo maoista al capitalismo sfrenato. Feng Xiaogang con Youth abbraccia un periodo temporale che parte dai primi anni Settanta, quando ancora era in vigore la Rivoluzione culturale, per arrivare al 1995 almeno nelle immagini filmate perché i flashforward evocati dalla narrazione della voce off giungono anche ai giorni nostri. Nulla di nuovo nel cinema cinese anzi. È evidente in Youth la derivazione dall’immaginario di Jia Zhangke, da opere come Platform, di cui ha in comune il fatto di essere incentrato su una compagnia di teatro, canto e danza, o Mountains May Depart. La storia politica e sociale di un paese vista attraverso le sue espressioni e influenze nelle vite private di un gruppo di personaggi. Youth può rappresentare una versione, una controparte normalizzata, calligrafica rispetto alla dimensione autoriale del cinema del collega cinese. Un film storico in grande stile, con dovizia di ricostruzioni, e fin qui nulla di male. Il problema è che Feng Xiaogang riesce a farne un pastrocchio con una dimensione complessiva da melodramma e una derivazione nel cinema bellico, sempre nella miglior tradizione hollywoodiana. Il tutto con una narrazione molto romanzata, probabile apporto della scrittrice Geling Yan, le cui interazioni con il cinema hanno partorito ben altri risultati, I fiori della guerra, Dangerous Liaisons e altro.
Le rappresentazioni rivoluzionarie durante la Rivoluzione culturale, la morte di Mao, un trauma e uno spartiacque, dopo il quale si può mangiare il gelato o ascoltare la musica popolare con i registratori e le audiocassette; arrivano i prodotti dalla capitalistica Hong Kong, si parla della Banda dei Quattro e di Deng Xiaoping. Un’immagine suggestiva del film vede la presenza, nella stessa sequenza, di una pubblicità della coca cola e di un’effige di Mao, il grande timoniere il cui culto non è mai tramontato nemmeno nella Cina contemporanea. Entrambe icone dal fondo rosso, il che vuole forse sottolineare la sorprendente velocità con cui nel paese si è passati dal diradare dell’una nell’altra. E nella Cina degli anni Novanta i bambini giocano con i Transformer. Ma si torna sempre nel luogo della memoria, in quella palestra dove continuano a campeggiare i ritratti di Mao, Marx, Lenin e Stalin.
Una lunga digressione è quella della guerra sino-vietnamita del 1979, in cui ritroviamo i nostri protagonisti della compagnia teatrale, chi in veste di soldato, chi di infermiera di campo. E qui Feng Xiaogang non riesce a trovare un giusto equilibrio tra la rappresentazione bellica spettacolare di stampo hollywoodiano – in nome del comune Vietnam – e la messa in scena cruenta degli orrori della guerra, scadendo nello splatter: l’esplosione del corpo del soldato, il soldato ustionato su tutto il corpo che sembra una mummia.
Feng Xiaogang mostra buone prove di regia, come nel long take iniziale che parte dal pittore che completa il manifesto dello spettacolo per carrellare sui due ragazzi che saranno i protagonisti del film. Ma altri momenti appaiono ridicolmente patinati, come la ragazza sotto la doccia, scintillante nei riflessi di luce. Rimane una superficialità di fondo che non approfondisce le situazioni storiche fermandosi sul piano dell’affresco e del melò.
Giampiero Raganelli