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Al di là delle montagne

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VOTO: 10

La meglio gioventù cinese

Le relazioni tra i sentimenti e il tempo che passa, i tempi e le stagioni della vita, che si intrecciano con quelli della Storia. Sempre più complesso e stratificato il cinema di Jia Zhangke che approda ancora sulla Croisette nel concorso ufficiale con il suo ultimo lavoro, Al di là delle montagne (titolo internazionale Mountains May Depart). Un film diviso in tre parti, collocate in tempi diversi, la prima nel 1999, la seconda nel 2014 e la terza, futuristica, nel 2025. Il modello dichiarato, almeno di partenza, è quello di Three Times di Hou Hsiao-hsien, film di cui viene citata espressamente un’immagine iconica, quella di Shu Qi vista attraverso una vetrata, qui riproposta identica con una donna che taglia la carne. E potremmo anche parlare di una sorta di Meglio gioventù cinese – la storia di un periodo di tempo di un paese vista come sfondo alle vicende di alcuni personaggi – ma con ben altra portata rispetto al film italiano di Giordana. Il cinema di Jia non contempla avvenimenti storici ma abbraccia il tempo e lo spazio, viaggia nelle mutazioni antropologiche e paesaggistiche di un grande e complesso paese in trasformazione, un viaggio che parte dal 1999, poco dopo l’handover di Hong Kong, per arrivare a una Cina sempre più espansa, che contempla e ingloba altri paesi asiatici, una “pan-cina” che, nella parte del futuro, arriva fino a un’Australia colonizzata da tanti cinesi, che parlano inglese.
Si parte, e poi si arriva, con la canzone Go West dei Pet Shop Boys, un momento nostalgico di un passato in realtà molto recente. Si inizia con una festa scolastica, con l’euforia, con la consapevolezza di un periodo florido, di ricchezza diffusa, il nuovo secolo, un paese che si è riunificato con l’ex-colonia britannica, volano dell’economia complessiva. Già i personaggi mostrano un anelito al viaggio, a colonizzare nuovi territori, come Macao all’epoca ancora colonia. Fuochi d’artificio, botti, petardi sul fiume ghiacciato, feste che poi torneranno in tutte le parti del film. E il film comincia in formato 1:33 – che poi si espanderà in anamorfico come ora, con il digitale, si può fare, Xavier Dolan docet – e inglobando immagini girate tempo fa, con le prime macchine digitali. Jia le raccorda con quelle, dalla grana e definizione decisamente superiori, girate ora senza cercare il modo migliore per uniformarle, ma esibendone e sottolineandone, anche mediante deformazioni, la  differenza.
La polvere, le miniere di carbone, la pagoda che sovrasta le casette e i prefabbricati, le discoteche, il viagra, i paesaggi che alternano pieni e vuoti con gli sventramenti delle attività estrattive, e il bambino che viene chiamato Zhang Dollar. È il ritratto di quel mondo, visto attraverso una storia di triangolo amoroso alla Jules e Jim. E un bambino segna anche l’inizio del segmento del 2014, dove le immagini che campeggiano sono quelle del piccolo appartamento dei personaggi, in disordine, i palazzoni seriali che si susseguono tutti uguali, alternati a edifici neoclassici, le ciminiere, i treni superveloci, la tigre in gabbia, l’onnipresente pagoda. Il carbone è associato ora all’insorgenza di malattie. Torna il maglione a righe colorato, che si vedeva anche nella prima parte, e la Cina è sempre quella pervasa da artisti di strada e di bande colorate, quella delle cerimonie, matrimoni e funerali. In questo momento una scena delicatissima, quella della morte del vecchio, di cui si rendono conto dei monaci che gli sono accanto. Il barlume di quella sensibilità che appartiene a un mondo ormai antico, in un paese dominato da caos e arricchimento, torna a manifestarsi nei momenti drammatici.
Si arriva quindi al futuro, a un mondo postmoderno, incarnazione di quell’anelito fantascientifico del disco volante di Still Life. Una Cina che non è più Cina, che è uscita dai suoi confini geografici, un intero mondo che è diventato, anche, Cina. La globalizzazione dei mercati, in cui la Cina del 1999 si è perfettamente inserita e integrata, ha uniformato tutto e, nella nuova Cina in Australia, si parla inglese. Immagini di grandi viadotti, ma il futuro è quello della tecnologia digitale, con dispositivi sempre più high tech, sempre più eterei e immateriali. Ma alla fine non si può che tornare alla nostalgia di Go West, di una società si sentiva onnipotente, protesa verso un futuro che l’avrebbe portata su nuovi territori, anche se erano già evidenti le contraddizioni, e i prezzi da pagare.

Giampiero Raganelli

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