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I Am Not Madame Bovary

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VOTO: 8

Sola contro tutti

Sola contro tutti. Talvolta persino contro il buonsenso. Almeno apparentemente… L’eroina di I Am Not Madame Bovary è uno di quei personaggi destinati a rimanere scolpiti nella memoria. E non soltanto, come il rimando letterario presente nel titolo lascerebbe ad intendere, perché la protagonista Li Xuelian si fa portavoce di istanze specificamente femminili nell’aspro confronto con uomini che inizialmente non sembrano prenderla troppo sul serio, ma soprattutto perché questa sua battaglia individuale diventa strada facendo severo monito al possente leviatano della burocrazia cinese. E nella forma assunta da un così complesso, spesso traumatico dialogo tra individuo e collettività, il film diretto da Feng Xiaogang ci ha persino ricordato quei lungometraggi, animati da analoghe finalità, che l’altrettanto celebrato collega Zhang Jimou era solito realizzare una ventina di anni fa: su tutti l’incalzante Non uno di meno premiato nel 1999 a Venezia.

Ecco, solitamente preferiamo evitare simili generalizzazioni, ma non ci sembra poi così sballato affermare che Feng Xiaogang, assieme magari al più profondo, disturbante Jia Zhangke e al già citato Zhang Jimou, sia stato negli ultimi anni il regista che ha maggiormente contribuito a formare l’immaginario (in primis quello occidentale) relativo a un paese di dimensioni continentali, quale la Cina. Fatta tale premessa, il Gelso d’Oro alla carriera attribuito durante questa diciannovesima edizione del Far East Film Festival proprio al regista cinese, che vi aveva peraltro già trionfato in concorso nel 2010 con il drammatico, apocalittico Aftershock, acquista un valore più alto. Ma a margine di una simile scelta c’è da dire che, per quanto riguarda il nostro gusto critico, un cineasta importante quale senza dubbio è Feng Xiaogang si era reso protagonista, in passato, di opere centrate e attuali come pure di pellicole alquanto roboanti, superficiali. A renderci doppiamente felici è pertanto il fatto che tale riconoscimento sia arrivato quest’anno, in occasione di una delle sue opere cinematografiche più meritevoli e personali.

Già dal breve prologo, che ci riporta ad alcune archetipiche figure della locale tradizione letteraria, I Am Not Madame Bovary va in direzione di qualcosa di ben diverso dai prodotti più commerciali di un regista considerato anche, per certi versi, lo Steven Spielberg cinese. Il ricorso ad eleganti mascherini, uno a iride (utilizzato prevalentemente per le sequenze in provincia) e l’altro di forma vagamente rettangolare (lo si scorge soprattutto quando la protagonista vuol far sentire la sua voce a Pechino), finisce per incastonare in una dimensione formale estremamente studiata, emblematica, armonica, il percorso dell’ostinata protagonista negli invece caotici meandri di un apparato giudiziario e burocratico, visto poi attraverso una luce sempre più grottesca, assurda, paradossale. La nota più straniante riguarda forse le motivazioni della conturbante e ossessiva eroina, la cui polemica nei confronti dell’ex marito, accusato qui di aver “barato” nel portare avanti una specie di finto divorzio inizialmente concordato tra loro, potrebbe apparire in certi momenti poco fondata, esagerata, persino autolesionista: dove potrà mai portare, ad esempio, quel suo continuo caricare a testa bassa magistrati e altre autorità locali? Ma la bizzarra causa da lei intentata, oltre a scoperchiare alcuni meccanismi perversi operanti all’interno della società cinese, finirà anche per mettere a nudo, con sottigliezza, gli elementi di fragilità di una macchina burocratica che continua a mostrarsi inadeguata, lontanissima dagli interessi popolari e incline ad accumulare i più disparati complessi di colpa, persino quando i suoi esponenti si ritrovano ad agire in buona fede.

Stefano Coccia

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