Oggi un Dio non ho
I film a episodi tendono a calamitare curiosità, ma anche non pochi timori, nei grandi festival. Ciò corrisponde in genere al frutto dell’esperienza, perché in tali manifestazioni gran parte degli spettatori ha ben presente il grado di disomogeneità e, almeno in certi casi, di complessiva prolissità, che queste produzioni cinematografiche possono raggiungere. Un altro problema col quale confrontarsi è rappresento dall’anima del progetto, talvolta debole, nonostante i temi di rilievo scelti per fare da collante tra i singoli corti, che lo compongono. Per quanto riguarda Words with Gods non è affatto difficile individuare il fil rouge: l’anima del progetto, nel caso in questione, è proprio l’Anima. Nel senso che vi è il rapporto dell’uomo con la religione, al centro dei piccoli film realizzati da affermati registi come Guillermo Arriaga (autore del segmento “La Sangre de Dios”), Hector Babenco (“The Man That Stole a Duck”), Álex de la Iglesia (“The Confession”), Bahman Ghobadi (“Kaboki”), Amos Gitai (“The Book of Amos”), Emir Kusturica (“Our Life”), Mira Nair (“God Room”), Hideo Nakata (“Sufferings”) e Warwick Thornton (“True Gods”). Ma il rischio che anche quest’anima risulti un pochino sbiadita fa presto ad affacciarsi.
Sia nelle stucchevoli animazioni poste tra un segmento e l’altro che nei meno riusciti, tra i cortometraggi proposti, la nota più desolante sembra porsi in quel timbro vagamente “new age”, capace di appiattire e offuscare ogni discorso. Chi ne sta ora scrivendo, dotato peraltro di una sensibilità personale tendenzialmente agnostica ed orientata semmai verso i culti pagani (discutibile, tra l’altro, che in tutto il film non vi sia alcun accenno alle religioni Etene, forma moderna dell’antico Paganesimo), si è particolarmente rammaricato di fronte a una constatazione: i difetti poc’anzi riscontrati appaiono accentuati proprio in quei corti, che manifestano un’impronta in qualche modo politeista. Più in particolare, il peggiore del lotto si è rivelato senza ombra di dubbio quello ambientato da Warwick Thornton nel deserto australiano, con uno stile visivo da patinatissimo spot pubblicitario e trovate spaventosamente kitch, inserite in malo modo per esprimere da un’angolazione animista il parto di una giovane aborigena. Ma anche il lavoro tendenzialmente più ironico di Mira Nair, riferito a una cultura Indù fotografata tra modernità e riti tradizionali, mostra i segni di una globalizzazione mal digerita, sia nella struttura del racconto che in determinate scelte estetiche.
Con un certo sconforto, dobbiamo quindi considerare il fatto che anche in questo progetto cinematografico, coordinato da Arriaga e benedetto musicalmente da Peter Gabriel, la parte del leone spetta pur sempre alle grandi religioni monoteiste: ebraismo, cristianesimo e islamismo. Facciamocene a malincuore una ragione. E se il corto balcanico di Emir Kusturica è a nostro avviso la cosa peggiore che il grande cineasta abbia mai girato, da altre parti sono arrivati segnali di gran lunga più confortanti. Pregevoli tracce di ironia affiorano sia nella storia raccontata dall’iraniano Bahman Ghobadi che in quella, non priva di una certa ribalderia, del solito, incorreggibile Álex de la Iglesia, capace anche qui di irridere le ipocrisie pretesche in maniera sfrontata e godibilissima. Ma i lavori più belli in assoluto, assai differenti tra loro per quanto riferiti entrambi a sofferte elaborazioni del lutto, sono per noi quelli firmati da Hector Babenco e Hideo Nakata. Nel segmento del Giapponese c’è addirittura una parziale deriva documentaria, visto che Nakata con grande rispetto e scelte di regia encomiabilmente sobrie ha voluto legare un tagliente apologo sull’accettazione della sofferenza, in chiave buddista, alla recente tragedia di Fukushima. Emotivamente toccante anche il lavoro di Babenco, incentrato sulla perdita del figlio da parte di un anziano genitore e capace anche di stupire, tra danze estatiche della Santeria, scorci di desolazione carioca e la folgorante apparizione di un’oca rubata. Chiuderemmo questa rapidata carrellata con lo stesso Arriaga, perché la sua riflessione cinematografica sull’ateismo non ci ha del tutto convinti, lasciandoci però spiazzati grazie a un finale dal taglio inquieto, suggestivo e paradossale.
Stefano Coccia