La bestia dentro e fuori
La Blumhouse Productions è una società nata nel 2000 dall’enfant prodige del cinema indipendente statunitense Jason Blum ed è specializzata nella realizzazione di film horror. Dietro il suo successo, oltre al fiuto del fondatore, c’è un vero e proprio marchio di fabbrica e un metodo produttivo quasi infallibile che con budget ridotti e massima libertà ai registi riesce a guadagnare sia con le hit che con i flop, basta pensare alle saghe di Paranormal Activity, Insidious, La notte del giudizio, Sinister e Ouija. Ecco che non sorprenderebbe se anche l’ultimo arrivato in casa Blum, ossia Wolf Man, nelle sale nostrane con Universal Pictures dal 16 gennaio 2025, portasse a casa dei buoni risultati al botteghino. In tal senso è sufficiente il titolo a rievocare un immaginario orrorifico sterminato e con esso una letteratura e una filmografia altrettanto vasta, a cominciare dal grande classico del 1941 di George Waggner, del quale Joe Johnston ha firmato nel 2010 un remake che ha deluso e non poco le aspettative nonostante la presenza nel cast di nomi altisonanti come quelli di Benicio Del Toro, Anthony Hopkins ed Emily Blunt.
Viene da chiedersi allora in che modo l’ennesima opera audiovisiva incentrata sulla figura ormai mitologica dell’uomo lupo potrebbe attirare l’attenzione visti i tantissimi precedenti, che hanno portato sul grande schermo la figura del licantropo in tutte le salse possibili e immaginabili. Eppure quel cavillo per rendere il tutto interessante tanto da dare un senso all’operazione e conseguentemente un motivo per esistere Leigh Whannell l’ha trovato. Del resto si tratta di colui che ha compiuto il medesimo “miracolo” facendo riemergere dalle ceneri della dimenticanza anche l’uomo invisibile con il suo adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di H. G. Wells e reboot del film del 1933, del quale si era occupato pure Paul Verhoeven con il non riuscitissimo Hollow Man. L’attore, regista e sceneggiatore australiano, potendo contare nuovamente come per il suo film del 2020 sul metodo Blumhouse, ha trovato quella variante sul tema trasformando la maledizione della licantropia in una malattia. Lo ha fatto per sua stessa ammissione ripensando al lockdown del Covid-19, quando ci si poteva ritrovare chiusi in casa con un familiare contagiato. E infatti è da qui che Whannell e la moglie Corbett Tuck hanno generato il seme narrativo e drammaturgico che ha dato forma e sostanza al plot di Wolf Man, laddove un uomo e la sua famiglia si ritrovano assediati da un altro licantropo in un cottage isolato nelle foreste dell’Oregon, costretti a difendersi da un nemico esterno ma pure da un mostro interno.
È su questo duplice conflitto che metterà i diretti interessati davanti a una difficile decisione pur di sopravvivere che ruota quella che senza esagerare si può considerare una stimolante reinvenzione, o quantomeno una rilettura, della matrice originale e del classico di Waggner, pure non essendo un remake di quest’ultimo. Wolf Man si regge unicamente sulla variante di cui sopra che trova nel modus operandi dell’home invasion una spalla più che valida per tenere a sé uno spettatore ormai altrimenti assuefatto da entrambi i filoni. Il cineasta di Melbourne riesce con una buona costruzione della tensione, qualche soluzione tecnica degna di nota (vedi le scene dell’incidente e della serra), un discreto lavoro di sound design e le convincenti interpretazioni di Christopher Abbott e Julia Garner, rispettivamente nei ruoli di marito e moglie, a portare a casa un horror che merita un’occasione. Il tutto al netto di una serie di svarioni per quanto concerne i VFX, in particolare gli effetti speciali prostetici, che non sono sempre all’altezza della situazione.
Francesco Del Grosso