Parte invisibile e parte no
Benché la pellicola sia distribuita dall’Universal Pictures, il rimando alla famosa serie prodotta dalla medesima con al centro il personaggio dell’uomo invisibile si ferma al logo che inaugura la pellicola. Quella serie in bianco e nero, e tutte le altre pellicole a seguire che hanno sfruttato il protagonista invisibile, erano semplici adattamenti cinematografici che utilizzavano il personaggio per mettere in immagini l’effetto invisibile e mostrare gli eventuali divertenti trucchi mirabolanti. Leigh Whannel con The Invisible Man non vuole attuare un semplice aggiornamento (di personaggi, luoghi e tempi) del noto romanzo di H.G. Welles, ma attingendo da quella storia, abbastanza usurata cinematograficamente, rielabora una sua particolare e personale riflessione, che si riallaccia in alcuni spunti al suo precedente lungometraggio Upgrade (2018). Inoltre, questo nuovo The Invisible Man, almeno nella sua prima parte, rimarca perfettamente gli stilemi rinomati della Blumhouse Productions, nella quale più che eccedere nel mostrare il terrore preferisce subodorare la paura.
Sceneggiato dal medesimo Whannel, che si sta rivelando una garanzia – d’incasso – per il genere horror e uno dei pupilli del produttore Jason Blum, L’uomo invisibile contiene pregi e difetti dell’autore, e della casa di produzione. Come scritto antecedentemente, la parte migliore, ossia che mette ottimamente a profitto l’idea di base, è la prima unità, tutta costruita sulla tensione di un qualcosa d’impalpabile, mentre la seconda parte si adagia su sequenze che mostrano ampiamente la minaccia, rivelandosi più dozzinali, seppure spettacolari. L’aspetto più interessante di questa nuova rielaborazione, però, è mettere al centro della vicenda una figura femminile psicologicamente fragile, che subisce le azioni malevole dell’uomo invisibile. In questa prima sezione, che tiene in conto i tratti distintivi propri della Blumhouse, vi aleggia anche la tensione hitchcockiana. Innanzitutto facendo ruotare la vicenda intorno alla figura della normalissima donna – bionda come quelle predilette dal regista inglese – che si ritrova vittima ma, ancora turbata dall’esperienza matrimoniale con l’ex marito, non può dare certezze alle poche persone che la accudiscono su quanto realmente lei percepisce e dice, e quindi viene presa per pazza e lasciata sola. Poi, la tensione si amplifica sfruttando gli spazi in cui si muove Cecilia, in particolar modo le sequenze ambientate nelle case (nella villa dell’ex marito, la suspense si genera con il silenzio e l’ampiezza del luogo). Tutta questa prima parte fa leva su tale pressante sentore, a cui si annettono momenti visivi “paranormali” simili a quelli visti in Paranormal Activity (ad esempio nella scena in cucina). Meno funzionale è la seconda unità, che svela il trucco dell’invisibilità (l’idea sembra derivata dalla serie Marvel, con tanto di laboratorio iper-tecnologico) e si prodiga in scene d’azione (senza porre l’accento sulla fragile logica dell’architettata fuga di Cecilia dall’ospedale). A lato di questo svolgimento, Whannel con L’uomo invisibile recupera anche il tema della tecnologia, dell’essere spiati, già ampiamente narrati in chiave Sci-fi in Upgrade. Nelle sequenze iniziali, Cecilia vive nella casa dell’ex marito in cui vi è un massiccio uso di videocamere, oltre ad altri sensori (allarmi e codici d’accesso) che soffocano la sua vita. Oppure, la sequenza in cui Cecilia fugge dalla casa di James dopo l’ennesimo attacco dell’uomo invisibile, e mentre scappa in strada, la videocamera della casa di un vicino riesce solamente a riprendere lei che corre come un’ossessa. Un “filmato” che può far credere che lei sia pazza.
Roberto Baldassarre