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Who We Are Now

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VOTO: 7

Il coraggio di cambiare

Vizi (pochi, per l’occasione) e virtù (abbastanza, fortunatamente) del cinema indipendente americano possono essere riassunti alla perfezione da questo Who We Are Now, diretto dal nativo d’Australia – ma da tempo trapiantato negli States – Matthew Newton, curioso personaggio il quale, dalla recitazione in produzioni di livello non eccelso o televisive, si sta ritagliando uno spazio decisamente di riguardo come regista e sceneggiatore di opere a basso costo.
I pregi di un lungometraggio dal suggestivo titolo di Chi siamo ora, traducendolo letteralmente in italiano, riguardano senza dubbio la buona capacità dimostrata dal Newton sceneggiatore di scrivere storie corali con incastri narrativi mai banali, descrivendo per ogni personaggi ruoli a tutto tondo. Partendo dal presupposto di quanto la vita sia dura, soprattutto per coloro che devono superare rilevanti ostacoli giorno per giorno, lo spettatore fa la conoscenza di Beth (un’ottima Julianne Nicholson, molto compresa nella parte, anche perché produttrice del film) donna quarantenne condannata per omicidio colposo la quale vorrebbe in riaffidamento il figlio decenne nel frattempo cresciuto dalla di lei sorella in sua forzata assenza. Una vicenda molto dolorosa, anche perché s’intuisce chiaramente – come verrà poi svelato da lei stessa nel corso del film – che Beth si porta dietro ferite esistenziali difficilmente rimarginabili. Attorno alla figura della donna gravitano altri personaggi, in primo luogo alcuni componenti di uno studio legale per persone non abbienti in cui spicca l’apprendista avvocato interpretato dall’ormai lanciata Emma Roberts.
Come da prassi per questo genere di opere, la regia di Newton tende a nascondersi dietro la varia umanità – almeno questa sarebbe l’ambizione – messa in scena. Storie di gente comune relegata ai margini della società, eppure straordinarie nella loro unicità, che senz’altro sarebbero piaciute a strepitosi narratori quotidiani della letteratura novecentesca statunitense come Raymond Carver o Charles Bukowski. Nella circostanza Newton cerca la quintessenza del dolore autentico e realistico e non si spaventa di insinuare, metaforicamente, la macchina da presa in abissi intimi certamente scivolosi, evitando però il rischio sempre in agguato del voyeurismo. Tutto, insomma, è molto misurato. Il difetto più evidente del film, semmai, risiede nella reiterazione continua di tali assunti. Dialoghi eccessivamente lunghi e ripetitivi possono indurre alla noia lo spettatore, peraltro in precedenza condotto alla riflessione dall’esemplarità delle singole vicende. Più che la forza o la debolezza caratteriale del singolo individuo, la differenza tra vita e morte la fa la sua predisposizione a non infilarsi nel tunnel della solitudine, chiedendo aiuto a coloro che sono disponibili ad offrirlo a qualsiasi livello. Un confronto con gli altri, ci suggerisce con discrezione un lungometraggio come Who We Are Now, utile soprattutto a conoscere meglio se stessi. Nonché ad avere il coraggio di prendere la decisione giusta non per appagare i proprio bisogni bensì ragionando sulle necessità effettive della persona amata. Per ciascuno di questi motivi, il catartico epilogo dell’opera quarta da regista di Matthew Newton – presentata nella Selezione Ufficiale della dodicesima edizione della Festa del Cinema di Roma – riscatta in positivo le piccole incertezze di cui sopra, che possiamo considerare quasi una sorta di tributo da pagare ad un certo tipo di sottogenere indie, affetto da troppa ansia di spiegazioni. In tutta franchezza c’è sempre da preferire un silenzio pregnante e lasciato all’interpretazione di chi guarda.
In ogni caso, quello di Matthew Newton si propone come nome da seguire con attenzione per il futuro, non fosse altro che per la notevole abilità dimostrata come direttore di attrici e attori, tra i quali ritroviamo la Lea Thompson della saga di Ritorno al Futuro e il Jason Biggs di American Pie, in un breve ruolo finalmente adulto e pure parecchio laido.

Daniele De Angelis

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