Salvate il soldato Glen
L’America ha bisogno di lui. Dopo anni di conflitto in Afghanistan, una terra martoriata dalle bombe e dalle ostilità, il governo a stelle e strisce non riesce a portare a termine la missione, ricordando in alcuni punti l’ingloriosa ritirata dal Vietnam. La Casa Bianca non ha dubbi: per vincere, c’è bisogno di una mente lucida, che ha ben chiaro il suo obiettivo e che ha lavorato duramente sul fronte, rappresentando in pieno gli ideali americani. Il presidente Obama sceglie il generale Glen McMahon, che non conosce la parola sconfitta, visti gli innumerevoli successi e gli epiteti (da “Il re leone” a “Glen la bestia”) ottenuti dal 2001. Spietato, arrogante, ma i Marines lo adorano, perché sono queste le giuste qualità per chi vuole stare al comando di un esercito. Solo che lui, in questo preciso istante, si trova in netto contrasto con l’establishment su come gestirlo. McMahon vuole più uomini dalla NATO per poter mettere in sicurezza il territorio secondo il principio della “controinsurrezione”, isolando i ribelli e convincendo gli abitanti che l’America è lì per garantire la pace e la democrazia. Di diverso avviso è il governo, che, anziché aumentare, vuole invece ridurre il numero di soldati nella zona, visto l’obiettivo di abbandonare il conflitto il più presto possibile.
David Michôd cambia notevolmente registro con il suo terzo film alla regia War Machine, tratto dal libro “The Operators” di Micheal Hastings. Dopo Animal Kingdom, un gangster movie australiano che racconta una famiglia alla deriva, e The Rover, un thriller che affronta l’abbandono di ogni forma di moralità, con questa nuova opera, prodotta da Netflix, l’autore utilizza la satira e il dramma per illustrare un uomo che vive all’interno di una bolla di cristallo, lasciando fuori da questo mondo fallace tutto ciò che non gli serve allo scopo, come, ad esempio, la moglie, che ha incontrato in questi anni solamente 30 giorni. La realtà circostante è sfocata e deformata dalla sua visione del potere, sempre più vicino al palmo della sua mano quando si tratta di guerra. Glen McMahon, interpretato da Brad Pitt, è infatti descritto da Michôd come un insieme di diversi personaggi portati sul grande schermo. Si trova un po’ in lui il Tenente Aldo Raine di Bastardi senza gloria, con la mascella spesso sporgente e il suo carattere duro e brutale di fronte al nemico, così come si nota una certa somiglianza allo stile goffo, folle e impacciato di alcuni soggetti dei film dei fratelli Coen, come il caso del palestrato Chad Feldheimer in Burn After Reading.
Quello che più colpisce è tuttavia il connubio tra le espressioni del generale e una delle scene cult del cinema dei Coen, quella ne Il grande Lebowski in cui durante una partita di bowling l’irato John “Walter” Goodman se la prende con un avversario per aver varcato la linea nonostante lo strike. Anche qui, nella sequenza della serata di gala in Francia, Glen, adirato nel non vedere “l’unico afghano presente” seduto al suo tavolo, sbotta contro il marine che, per parlare di affari, l’ha mandato via: “Secondo te a cosa serve questa cena, Tom Howard? Questa cena è per l’Afghanistan, siamo qui questa sera perché siamo in guerra in Afghanistan“. Come direbbe Walter, “ci sono delle regole“, e chi non le rispetta, o meglio, non lo rispetta, non merita la sua attenzione. Ma questo atteggiamento spavaldo da rock star, che il regista spesso accompagna con l’uso della musica e di inquadrature rallentate, sottolinea invece le sue debolezze, perché il suo vero nemico non è quello che sta dall’altra parte del fronte, ma è il suo stesso comportamento infantile, che emerge quando si trova a fare i conti con chi mostra la sua vera natura, dalla parlamentare tedesca, interpretata da Tilda Swinton, al Presidente Hamid Karzai, impersonato in alcune brevi sequenze da un notevole Ben Kingsley. War Machine descrive appieno le contraddizioni di un sistema completamente inceppato da ingranaggi che girano al solo scopo di alimentarsi, dimenticandosi del loro ruolo principale.
Riccardo Lo Re