Un omaggio alla libertà – quella vera – e alle donne in grado di viverla
Sage femme, ovvero “Ostetrica”: questo il titolo originale che Martin Provost ha voluto attribuire alla sua ultima opera, presentata al Festival di Berlino 2017 nel Fuori Concorso e ora in arrivo nelle sale italiane. Un titolo netto, conciso, che vuole racchiudere in un’unica espressione il vero oggetto della narrazione. Un titolo – ahinoi – tradotto in italiano con un banale Quello che so di lei, distorto, poco pertinente e soprattutto fuorviante rispetto a quello che sembrerebbe il vero intento del regista.
Claire (Catherine Frot) è una levatrice con un talento straordinario nel far nascere i bambini; un misto di inclinazione naturale, esperienza e amore per il proprio lavoro, ma anche per il rapporto interumano, che le consente di comprendere, di volta in volta, quali siano le reali esigenze, problemi o difficoltà delle proprie pazienti, in modo da consentire loro un parto quanto più possibile sereno, naturale.
Ma l’amore e la dedizione di Claire si scontreranno presto con il moderno sistema ospedaliero, poiché il reparto maternità in cui opera da decenni sta chiudendo per lasciar posto a un’innovativa e tecnologica struttura atta a far nascere migliaia di bambini ogni anno, sacrificando quella passione che contraddistingue il suo operato in nome di un’ormai necessaria produttività. Claire, per la prima volta nella propria vita, si trova costretta a mettere in discussione ciò in cui ha sempre creduto, ed entra in una profonda crisi che, in seguito a un’inaspettata telefonata, si rivelerà di natura non solo professionale. È Béatrice (Catherine Deneuve) a parlare dall’altro capo della cornetta, la ex compagna del padre sparita da un giorno all’altro senza apparente motivo, e riapparsa solo ora, a distanza di trent’anni, perché profondamente malata e in cerca di aiuto.
La pellicola si concentrerà, da questo momento, sul rapporto tra le due donne, così antitetiche l’una rispetto all’altra, ma inevitabilmente unite da un legame profondo. L’integrità, il rigore e la serietà di Claire verranno letteralmente messe in crisi dalla frivolezza e l’irruenza di Béatrice, che le piomberà letteralmente in casa senza farsi troppi problemi. Un rapporto apparentemente impossibile si trasformerà in una vera e propria complicità, dove ognuna avrà qualcosa da trasmettere all’altra: Béatrice imparerà a dare più valore alle cose della vita, in primis a se stessa, e Claire imparerà a prendersi meno sul serio e a lasciarsi andare un po’ di più, specialmente nel rapporto con gli uomini, dando una possibilità in più al simpatico Olivier Gourmet nei panni di un autista di tir che irrompe nella sua vita. Il tutto sullo sfondo di una Parigi non più patinata come quella a cui ci hanno abituato le moderne pellicole, bensì semplice, vera; un volto trasmesso tramite insoliti scenari, ora sulle rive della Senna, ora in una campagna o in una periferia: ambientazioni reali, come reale è il rapporto che si instaura tra le due protagoniste.
Ma al di là dello sdoganato “equo scambio” tra cicala e formica o tra apollineo e dionisiaco che dir si voglia, per una lettura più approfondita della pellicola occorre un’importante informazione: Quello che so di lei, senza voler essere un film autobiografico, è un omaggio che Martin Provost ha dichiarato di aver voluto fare alla propria levatrice, quando ha saputo di essere sopravvissuto grazie a lei, che alla nascita gli donò il sangue. E lo fece con umiltà e discrezione. Si chiede, il regista, in modo molto più implicito, cosa sia davvero la libertà e, tra le due protagoniste chi sia, invero, lo spirito libero. Dietro allo stravagante e pur positivo personaggio di Béatrice, infatti, sembra celarsi una sottile critica verso una paura mascherata da libertà, una continua fuga dai rapporti nascosta dietro a una mancanza di confini. Un’ideale di libertà come semplice mancanza di regole che lascia il tempo che trova, per esprimersi in modo molto più profondo attraverso il personaggio di Claire, vero omaggio alla storica levatrice, che esprime la propria libertà attraverso la sua continua possibilità di scegliere perché consapevole della propria identità, capace di amare senza paura della delusione e di stare in un rapporto senza mai fuggire.
Un omaggio a una donna, dunque, o, se vogliamo, a tutte le donne, poiché Quello che so di lei mette in scena due personaggi complessi quanto affascinanti, raccontando la storia di un rapporto e di una possibilità di superare le proprie rigidità solo attraverso lo scambio interumano diretto, faccia a faccia. Quello che la generazione del “touch” e delle moderne strutture ospedaliere che rinnegano le “Claire” vogliono farci dimenticare.
Costanza Ognibeni