Una storia d’amore, di sangue e di neomelodici coreani
Solido. E’ un aggettivo molto usato, indica robustezza, compattezza, concretezza, affidabilità. Non brillantezza. Nemmeno genialità. Detto per il cinema, un film è solido quando fa diligentemente il suo dovere, performa secondo le aspettative sviluppando una buona sceneggiatura su argomento a tinte scure terminante in un approdo coerente. I film coreani, quando non sono eccezionali, lo sono. Solidi. Thriller coreani? Solidi. Horror coreani? Solidi. Gangster movie coreani? Solidi. Poi arriva un poeta contemporaneo, Ha Yoo, che è pure regista e mischia un solido gangster movie con uno struggente melò coreano, ottenendone un film … contaminato? Eclettico ? Definitivo ? Mi sfugge l’aggettivo, aiutatemi voi.
A Dirty Carnival (2006) è la storia dell’ascesa e della discesa di un giovane gangster. Fin qui niente di nuovo, da più di un secolo ci danno ad intendere che la carriera criminale è una funzione gaussiana e può esser rappresentata con una curva normale, secondo le fasi tipiche del ciclo di vita di un prodotto: nascita-crescita-maturità-declino. Il punto è, che questo è proprio un ragazzo normale, uno di noi, un gangster precario mammone e bamboccione, che con i miseri proventi dei soliti loschi traffici non riesce ad arrivare alla fine del mese. Ha bisogno di cambiare le cose, di decidere a quale gioco giocare, ed è qui che il suo yin ed il suo yang si dividono in misura definitiva: sul lavoro, si fa spietato sicario e non esita a sporcarsi le mani di sangue per scalare le vette dell’organizzazione managerialcriminale. Nella vita privata, il richiamo della medietà nazional-popolare pare irresistibile, quindi sogna una vita da anonimo impiegato coreano magari coniugato con il suo primo amore, quella compagna di classe mai dimenticata ed ora ritrovata, con cui passare le domeniche a casa di mammà, a mangiare roba coreana, a vedere partire coreane, a fare pennichelle coreane. Una dicotomia bella e buona, in cui si mette a sguazzare il metacinema, sotto le mentite spoglie di un vecchio compagno di scuola aspirante regista de’noantri, amico del buon tempo, che usa le sue confidenze per fare il film della vita, incurante dei disastri che la visione comporterà. I personaggi buoni e cattivi sono monodimensionali ma molto empatici, specie quando si cimentano con il karaoke, qui usato come trait d’union sociologico e narrativo. Il film è stato definito scorsesiano, per le tematiche e per le strepitose scene di scontri all’arma bianca – nella fattispecie, stiletto e mazza da baseball – che sembrano echeggiare Gangs of New York, In effetti il cinema dei grandi italoamericani è presente, Coppola per il senso della famiglia (quella naturale, quella mafiosa), De Palma (per il titanismo dell’antieroe), Scorsese pure ma quello minore, quello che chiude l’orrido The Departed con il topo in primo piano ed il municipio di Boston sullo sfondo, non essendo prevista, nel gioco delle parti in continuo rovesciamento, nessuna redenzione. Il fatto è che la corruzione ed il ricatto, ci dice Martin Francis Brian Ha Yoo, sono i punti fermi attorno ai quali gira tutto il sistema sociale,anche a Seul, e nemmeno la morte spezza il loop antikarmico, vergogna chiama vergogna, mafia chiama mafia, dolore chiama dolore.
Forse lo sapevamo già, di certo non sapevamo quanto sono bravi e nasali i cantanti neomelodici coreani, e quanto siano simili ai loro famigerati colleghi partenopei: la canzone più amata dai gangster, cantata e ricantata al karaoke, pensate un po’, si intitola Zappatore. E felicissima sera sia.
Oggi è crisantemo, domani è la rosa.
Ti addormenti stanco del corteggiamento!
Sono stanco di aspettare, Zappatore! Zappatore
Sono stanco di raccogliere denaro,
Zappatore, zappatore!
Mi sento così solo
stanotte,
oh no!
Dikotomiko
http://dikotomiko.wordpress.com/