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Gunda

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VOTO: 7.5

Cosa cerca il gallo senza una zampa?

Ci sono una scrofa alle prese con una numerosa cucciolata, un gallo privo di una delle due zampe e una mucca dal muso flagellato dagli insetti. No, non si tratta di una nuova trasposizione de “La fattoria degli animali” di orwelliana memoria, bensì di un documentario – presentato al Torino Film Festival 2020 – diretto dal celebre cineasta russo Victor Kossakovsky. Il quale ha dedicato l’intera sua filmografia a questo specifico settore cinematografico. E un’impronta autoriale ben precisa è riscontrabile da subito anche in questo Gunda, opera che prende il titolo, per l’appunto, dalla scrofa protagonista. Per ogni documentarista l’interrogativo rimane lo stesso, anche dopo decine di incursioni nell’ambito del genere. In quale modo riprodurre la realtà? L’autore originario di San Pietroburgo, in questa sua ultima fatica, opta per una scelta a proprio modo radicale: quella cioè di girare il film in bianco e nero, “depurando” il reale da qualsiasi distrazione didascalica. In tal modo lo sguardo del fruitore non può essere concentrato sul colore del paesaggio – peraltro abbastanza brullo e anonimo – ma rimane fisso e diretto sull’essenza dell’istanza portata avanti da Kossakovsky: quella di compenetrare in senso assoluto l’esistenza di questi animali. Catturando sguardi, situazioni critiche, obbligando lo spettatore ad identificarsi nei loro comportamenti. In breve, anche se la cosa potrebbe apparire insolita se non anomala, creando un’empatia tra umano e animale, quella stessa che potrebbe risultare del tutto assente nella realtà quotidiana.
Gunda supera così di slancio anche il rischio della ripetizione. Nel lungometraggio osserviamo la scrofa, ad esempio, allattare ripetutamente la propria cucciolata. Ed il nutrimento costituisce sempre una lotta per la sopravvivenza (per i piccoli), arricchita dalla evidente sofferenza fisica della genitrice. Semplificando ma non troppo è Madre Natura stessa a fornire una vera e propria narrazione, in grado di costituire la sceneggiatura del film. C’è il dramma della selezione naturale, c’è la commedia dei maialini intenti al gioco fra di loro. C’è l’epilogo che rientra nell’ordine naturale delle cose, con mamma scrofa che si aggira ora sollevata ora smarrita nell’area di riferimento della fattoria, una volta esaurito il suo compito istintivo di nutrire la prole. Se Gunda – inteso come nome della femmina di maiale – fa la parte della protagonista nel minutaggio dell’opera, una menzione speciale merita il gallo che, tra goffi saltelli e battiti di ali, si aggira poggiandosi alla sua unica zampa nella zona di propria competenza. Dimostrazione evidente di come ogni piccolo particolare, mediato dall’occhio cinematografico, possa assumere un senso metaforico rispetto alla “banalità” del reale. Il gallo arriva ad un recinto di filo spinato. Lo becca, inutilmente. Con lo sguardo pare cercare qualcosa oltre quella recinzione. Impossibile non identificare i suoi desideri con quelli di molti esseri umani, nel presente e nella storia, costretti ad una situazione similare.
Gunda – rispetto ad altre opere di Kossakovsky maggiormente ricercate su un piano formale, come ad esempio ¡Vivan las antípodas! (2011) – sarà anche un documentario “piccolo” e girato a costi pressoché inesistenti. Rappresenta però anche un autentico manifesto sul mondo contemporaneo, dove la pacatezza di una voce può ancora sovrastare l’isteria di un urlo prolungato. Basta trovare, cercandola accuratamente, una dimensione naturale in grado di amplificarla. In Gunda, ancora una volta, lo slancio artistico dell’idea prevale di nuovo, in una società globale in cui il fattore umano risulta fiaccato da troppi elementi esterni. E se ciò accade (anche) attraverso l’acuta osservazione di qualche animale, è da considerarsi paradossale sino ad un certo punto.

Daniele De Angelis

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