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The Evening Hour

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VOTO: 6

La città è piccola e la gente mormora

Per la sua opera seconda, presentata nel concorso lungometraggi del 38° Torino Film Festival dopo le proiezioni alle ultime edizioni di Rotterdam e Sundance, Braden King ha scelto di adattare il romanzo omonimo di Carter Sickels dal titolo The Evening Hour. Siamo in quel di Dove Creek, in West Virginia, in quella che un tempo era la classica florida cittadina mineraria americana, ora ridotta a una comunità post-industriale in declino. Qui si consumano le giornate di un ragazzo di nome Cole Freeman, collaboratore sanitario a domicilio che si occupa degli anziani del posto e prova a sbarcare il lunario portando avanti una vendita illecita di antidolorifici. Come tanti della sua generazione vuole cambiare vita ma le opportunità sono sempre poche e l’ambiente che lo circonda è in costante cambiamento. Lui appartiene a una generazione intrappolata in un vortice di paura esistenziale, mancanza di opportunità e inadeguatezza.
Sono proprio questa mancanza assoluta di certezze, prospettive e speranze, mista a una fortissima e tangibile sensazione di abbandono generale, a respirarsi per l’intera durata di un racconto le cui radici narrative e drammaturgiche sono saldamente piantate in quell’America al margine, messa a dedita distanza dai luoghi dove abitualmente si decidono le sorti del Paese. Atmosfere e stati d’animo che il cineasta statunitense fa suoi, ereditandoli dalle pagine della matrice originale, per poi restituirli appieno sullo schermo attraverso una ballata romantica e al contempo disperata. Una ballata che trasuda realismo da tutti i fotogrammi, riportando la mente a Un gelido inverno, e che l’autore accompagna insistentemente con una colonna sonora “country”, dove spiccano le musiche di Jason Molina (morto a soli 39 anni per abuso di alcol e sostanze), a sua volta figlio legittimo e sfortunato della stessa “America profonda” che è protagonista, alla pari dei personaggi che vi deambulano trascinandosi quotidianamente, del libro prima e del film poi.
Il cineasta newyorchese firma un’opera che parla di legami interrotti e ricuciti dall’inconfondibile sapore indie a stelle e strisce, quello che nei decenni ha partorito tanto buon cinema. Un cinema che tenta di andare diritto al cuore dello spettatore con una “trasfusione” prima blanda e poi più corposa di emozioni cangianti, le stesse che mutevoli si presentano nella timeline di The Evening Hour. Braden King inizialmente le distilla solo con il contagocce, per poi offrirle in maniera più generosa a partire dal giro di boa allo scoccare esatto della prima delle quasi due ore a disposizione. Si assiste così a un significativo cambio di passo in termini emozionali per una pellicola che altrimenti avrebbe seminato tanto senza raccogliere nulla. Si ha pertanto la sensazione che nei primi sessanta minuti, l’autore avesse voluto solamente alimentare un equilibrio precario destinato poi a spezzarsi con il manifestarsi della violenza, quella che si palesa sullo schermo nel momento del pestaggio in casa dello spacciatore e del ritrovamento del cadavere di una ragazza andata in overdose. A quel punto è come se qualcuno avesse acceso l’interruttore della corrente emotiva, quella che per quanto ci riguarda era rimasta sino ad allora erroneamente cristallizzato.
Questa fa di The Evening Hour un film diviso in maniera netta in due grossi macro-blocchi, con una prima parte che fa fatica a calamitare l’attenzione del pubblico e una seconda che, al contrario, se la riprende con gli interessi. Per farlo si affida al cambio di passo degli interpreti e alle spinte propulsive della scrittura che, nel corso dell’escalation che conduce all’amaro epilogo, offre anche momenti più intimi che lasciano il segno, come nel caso del pranzo che certifica il riavvicinamento tra Cole e sua madre (una sempre convincente Lili Taylor) o del confronto notturno nella vecchia cava tra il protagonista e l’amico di un tempo Terry Rose (interpretato dal bravissimo Cosmo Jarvis, già apprezzato di recenti in Nocturnal).

Francesco Del Grosso

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