Brucia la città
Per Demetrio Giacomelli il Filmmaker Festival è un po’ come una seconda casa dove tornare tutte le volte che se ne presenta l’occasione. L’anteprima mondiale della sua ultima fatica dietro la macchina da presa dal titolo Un’estate a Milano nella sezione “Prospettive” della kermesse meneghina, laddove nella medesima vetrina non meno di un anno fa si era aggiudicato il premio per il miglior film con L’Estinzione rende liberi, è quella giusta. Bissare il successo non sarà facile vista l’agguerrita concorrenza, ma del resto l’importante non è vincere bensì partecipare come recita l’intramontabile motto decoubertiano.
E così, indipendentemente dal risultato e da un piazzamento oppure no nel palmares della 38esima edizione, il regista ligure si riaffaccia nella competizione lombarda con un’opera che vuole essere un viaggio fisico e mnemonico in un paesaggio quotidiano dove però l’inferno si annida dietro la porta di casa. Strada facendo, Giacomelli giustappone la normalità al male in un flusso di coscienza e orale ininterrotto nel quale trovano spazio frammenti di vita vissuta come in una sorta di mosaico che, tassello dopo tassello, si va componendo davanti ai nostri occhi. Passato e presente si mescolano diventando una cosa sola, cancellando la linea d’ombra con un continuo palleggio tra un piano e l’altro. In questo modo, normali associazioni, immagini e racconti di un’estate come tante che scaraventano il fruitore in una moltitudine di luoghi fisici e non (una stanza da studenti, il mercato sotto casa, l’ippodromo, la discoteca e i ricordi di un’infanzia spagnola) si confondono con storie di soprusi e torture, omicidi violenti, stupri usati come arma di guerra e lettere di detenuti che vorrebbero ricostruirsi una vita normale.
Da Un’estate a Milano non aspettativi un racconto lineare, scorrevole, compatto e ben identificabile, ma un “caos” anarchico di pixel digitali, pellicola e fotogrammi analogici coerente con quanto portato sullo schermo sino ad oggi da Giacomelli, già autore di pregevoli esempi di ibridazione come il recente Diorama, vincitore del premio per il miglior documentario italiano al Torino Film Festival 2017. Solo per comodità iscriviamo questa sua ultima fatica dietro la macchina da presa nella famiglia allargata del “cinema del reale”, quando invece il suo DNA è più vicino a quello di un diario audiovisivo nelle cui pagine l’autore assembla un insieme di racconti tratti dal vero (un su tutti quello di una ragazza spagnola che parla di sé, del suo passato, dei suoi genitori e del luogo dalla quale proviene).
Quello del regista genovese è un assolo nel vero senso della parola realizzato in piena autonomia, firmando, filmando e montando tutto che c’era da firmare, filmare e montare (dalla scrittura alle riprese sino all’intera fase di post-produzione). Il risultato è una navigazione a vista in solitario immersa nel reale, con Giacomelli che pedina, spia, cattura e raccoglie ciò che gli capita a tiro. E nel farlo punta alla sostanza senza badare alla forma e all’estetica della confezione, che rivendica la propria povertà di mezzi come sinonimo di libertà e indipendenza creative. La visione che ne consegue non è di facile e immediata lettura per coloro che non sono disposti a scavare al di sotto della superficie per andare a cercare altro. Al contrario chi ne ha accettato le regole saprà cogliere tutte le motivazioni, le suggestioni, i temi, i significati e i significanti che albergano nel suo “magma”, scoprendo un film che al contempo parla di persistenza e di ciò che abbiamo perduto.
Francesco Del Grosso