La lucida follia di Teinosuke Kinugasa
Quando un Premio Nobel del calibro di Yasunari Kawabata e un cineasta come Teinosuke Kinugasa si incontrano, possono nascere delle cose molto, ma molto interessanti. Questo, ad esempio, è quanto è avvenuto nel lontano 1926, quando uno dei più grandi maestri del cinema muto giapponese, nonché della cosiddetta “Età dell’Oro” degli anni Venti e Trenta, ha dato vita al bellissimo Una pagina di follia (Kurutta Ippeiji in originale), per la sceneggiatura di Kawabata, appunto, che, pur avendo ottenuto buoni consensi da parte del pubblico, ha avuto, purtroppo, un destino piuttosto infelice. Considerato, infatti, perduto fino agli inizi degli anni Settanta, il lungometraggio è poi stato ritrovato e nuovamente diffuso dallo stesso autore nel 1971, anche se, purtroppo, ridotto di un terzo rispetto alla versione originale del 1926. Meglio questo di niente? Senza dubbio. Anche se, infatti, da un lato, grande è la curiosità di vedere come il presente prodotto fosse stato inizialmente concepito dal regista, la possibilità di poterlo comunque visionare è davvero qualcosa di impagabile. Figuriamoci se lo si vede addirittura sul grande schermo. E questo è avvenuto proprio al SoundScreen Film Festival 2018, quando, proiettato come evento speciale, il presente lungometraggio è stato sonorizzato dal trio KyoKyoKyo.
Dopo aver fatto tesoro di quanto realizzato in Europa in quegli stessi anni, Kinugasa è stato in grado di dar vita a un vero e proprio capolavoro (ebbene sì, non si esagera se si vuol usare questo termine) del tutto innovativo e personale, il quale, a sua volta, pur classificandosi come film di denuncia contro una realtà come quella manicomiale, si fa, al contempo, vero e proprio manuale di regia e, a suo modo, anche di storia del cinema. Il tutto, in soli cinquantanove minuti (quelli a noi pervenuti). Ed è in questo breve lasso di tempo che ci viene raccontata la storia di un ex marinaio che, assunto come inserviente presso un manicomio, è costretto ogni giorno ad assistere all’agonia di sua moglie, impazzita dopo che il figlioletto è annegato in mare. L’uomo, tuttavia, tenterà di farla evadere dalla sua cella, anche se la cosa è alquanto impossibile da realizzare.
Una storia struggente, dunque, per un lungometraggio che, forte delle influenze del contemporaneo Cinema degli Artisti e dei Poeti, così come, a suo modo, dell’Espressionismo tedesco e di autori come Marcel L’Herbier, Fritz Lang e Carl Theodor Dreyer, si è rivelato ben presto come uno dei più importanti lavori dell’epoca del muto giapponese. Sono, in particolare, la scena iniziale e quella immediatamente precedente il finale a colpirci visivamente ed emotivamente con una macchina da presa che non ha paura di osare e di tentare nuovi movimenti (di particolare impatto sono, ad esempio, i movimenti che prevedono un capovolgimento della stessa), luci e ombre di anguste grate proiettate lungo i corridoi del manicomio, gesti e movimenti dei personaggi che tanto stanno a ricordare il teatro kabuki e, non per ultimo, un montaggio fortemente all’avanguardia dai ritmi frenetici e dai raffinati giochi di doppie esposizioni, accentuati anche dall’utilizzo di particolari lenti deformanti.
Nel mezzo, un (doveroso) momento di “pausa” in cui, con una messa in scena maggiormente classicheggiante, viene data allo spettatore un po’ di tregua, prima di essere nuovamente catalizzato dai disperati tentativi del protagonista di salvare sua moglie. Ed ecco che, man mano che ci si avvicina al finale, la tensione cresce e cresce, fino ad arrivare a una soluzione tanto spiazzante dal punto di vista contenutistico, quanto magneticamente affascinante dal punto di vista estetico.
Attuale, universale nei temi trattati, coraggioso e innovativo dal punto di vista della messa in scena, Kurutta Ippeiji è un vero e proprio patrimonio artistico della Settima Arte, nato dalla mente di un autore – Teinosuke Kinugasa – che non teme il confronto con i connazionali (e contemporanei) Yasujiro Ozu e Kenji Mizoguchi, ma che, purtroppo, al giorno d’oggi viene ricordato da un pubblico nettamente ridotto.
Marina Pavido