Lezioni di vita “on the road”
Uno dei parametri più affidabili per valutare l’effettivo valore di un’opera cinematografica è senz’altro la resistenza all’usura del tempo. Un biglietto in due (Planes, Trains and Automobiles, come recita l’indimenticabile titolazione originale) è stato realizzato nel 1987, cioè oltre trent’anni fa. Il regista e sceneggiatore John Hughes al pari di uno dei due protagonisti John Candy purtroppo non ci sono più, il secondo ormai da tempo. L’altro protagonista, Steve Martin, veleggia verso i settantacinque anni, immerso in una specie di pensione dorata. Però, a rivederlo ora, Un biglietto in due sembra girato ieri. Perché è una commedia divertente, certo. E il materiale comico non conosce età, quando davvero in grado di stimolare la risata spontanea. Tuttavia è altro a rendere il film di John Hughes completo nel senso letterale del termine. Una pienezza che gli consente di travalicare di slancio il pur nobilissimo genere di riferimento e conseguente categoria d’appartenenza. Con Un biglietto in due ci troviamo infatti dalle parti della classica commedia di caratteri decentrata su un versante del tutto inedito per il cinema hollywoodiano: il viaggio come strumento di conoscenza dell’altro, del diverso da sé, della propria antitesi. Scambiando dunque un cliché con una rivoluzione radicale. Un’opera nata produttivamente con evidenti mire da botteghino (nulla di male, beninteso) per un film capace invece di lasciare una traccia indelebile nei confronti dello spettatore. Oltre a risultare oltremodo seminale per molto del cinema a venire, come ad esempio nel caso del recente Green Book (2018) di Peter Farrelly, sia pure su un versante narrativo più drammatico.
Un passo indietro. Dopo il fenomenale Una pazza giornata di vacanza (Ferris Bueller’s Day Off, 1986) per Hughes il filone adolescenziale – sottogenere di cui lui stesso ha ridisegnato i confini, almeno per come lo conosciamo ora – rappresenta una parentesi chiusa. Esplorata da ogni suo possibile e recondita angolazione. Difatti Un biglietto in due è a tutti gli effetti il suo primo lungometraggio con protagonisti adulti. Anagraficamente, perlomeno. Poiché il tempo della crescita, inteso come spostamento dalle proprie, in apparenza granitiche e inattaccabili convinzioni, non è mai concluso. Neal Page (Steve Martin) è, senza tema di smentita, uno yuppie di quelli molto in voga all’epoca. Il tipico uomo in carriera degli anni ottanta, dedito al lavoro per assicurare un determinato tenore di benessere a se stesso ed alla propria, numerosa, famiglia. C’è di peggio, in giro nel periodo. Ma anche di meglio. Perché Neal è un po’ arrogante, giudica senza voler essere giudicato, convinto che il proprio status sociale gli garantisca una certa superiorità. Nel suo ritorno a Chicago da New York, dove lavora, incontra – o meglio si scontra – casualmente con il commesso viaggiatore Del Griffith (John Candy). Casinaro e logorroico oltre ogni senso della misura, ma anche provvisto di un altruismo e senso della generosità senza pari. Il corto circuito derivante dalla strana coppia destinata alla formazione sarà imprevedibile e affatto scontato. La sceneggiatura di Hughes illustra l’essenza dei due personaggi come meglio non avrebbe potuto. Tra traversie logistiche di ogni tipo – voli bloccati dalla neve, treni in panne, macchine a nolo inesistenti ed altro ancora – Un biglietto in due azzera la condizione sociale dei protagonisti per rilanciarli in una dimensione squisitamente umana. Steve Martin e John Candy, al primo ed unico film assieme, sembrano recitare insieme da un’intera vita, novelli Stan Laurel e Oliver Hardy dei bei tempi che furono. Vengono a galla, nel corso del film, i loro lati caratteriali nascosti, non immediatamente riconoscibili. Come in Breakfast Club (1985) dello stesso John Hughes lo stereotipo di partenza si trasforma in essere umano tridimensionale. Affiora allora, tra una risata e l’altra, la disperazione della solitudine, di un’esistenza giocoforza errabonda. La determinazione di Neal Page nel tornare ad ogni costo in seno alla bella famiglia borghese in tempo per il Giorno del Ringraziamento si specchia nella precarietà esistenziale di Del Griffith, “svantaggiato” al quale Hughes dedica idealmente il proprio film, facendone l’autentico motore sia narrativo che empatico. La nascita di un rapporto d’amicizia è descritta con la gradualità di un maestro della Settima Arte: riconoscere se stessi, i limiti che ci appartengono per poi tendere la mano verso l’altro. Il cinema cede il posto all’educazione alla vita in modo naturale, senza intenti didascalici o, peggio, cattedratici. Evitando in senso assoluto pure quell’ombra di pietismo che qualche critico poco illuminato al contrario rimarcò ai tempi dell’uscita di Un biglietto in due. Lungometraggio che non è affatto il caso di difendere in questa sede perché ci riesce benissimo da solo. Da New York a Chicago, un viaggio lungo un film in grado di cambiare la prospettiva delle cose sia ai personaggi che agli spettatori, per una volta uniti da un percorso simbiotico con pochi eguali. Una commedia che innesta dapprima lacrime da eccesso di divertimento per quasi l’intero suo corso diegetico, lasciando quindi il posto ad una commozione scaturita dallo svelamento che la vita mai si esaurisce in una crassa risata. Nel fermo immagine sul volto di John Candy a conclusione di Un biglietto in due – primo, tutt’altro che semplicemente simbolico, riconoscimento allo straordinario attore canadese, così importante nel cinema di Hughes; a cui ne seguirà un altro simile nel successivo Io e zio Buck (Uncle Buck, 1989) – si leggono stupore, un pizzico di imbarazzo ma anche tanta felicità per aver ritrovato un calore famigliare ormai ritenuto per sempre smarrito.
John Hughes, insomma, ha colpito ancora, in quei meravigliosi anni ottanta cinematografici ma anche no, nei quali si poteva sperare di abbattere qualche barriera precostituita pure nella realtà al di fuori dalla magia del grande schermo. Ora, invece?
Daniele De Angelis