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Tre piani

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VOTO: 5

Mi si nota di più se faccio o non faccio Moretti?

Ho lavorato odiando il mio personaggio. Così dichiarava Nanni Moretti a proposito della sua interpretazione in Il portaborse di Daniele Lucchetti, opera sulla corruzione politica che rivelava, e confermava, le doti recitative di Nanni Moretti, costruendo in opposizione il lavoro di attore, anziché mettere in scena come sempre sé stesso, le proprie nevrosi e il proprio ego. Doti recitative che non riesce a tirar fuori invece nella sua ultima opera, Tre piani, dove mantiene la tipica parlata cadenzata morettiana, non dissociandosi da un personaggio, come quello del magistrato Vittorio, che di negatività, volendo tirale fuori, ne avrebbe parecchie. Tre piani, presentato ora sulla Croisette, è il primo film di Moretti basato su una sceneggiatura non originale, da un romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo, e uno dei film del regista non incentrato su sé stesso e narrativo, come La stanza del figlio per intenderci, raccontando storie famigliari borghesi.

Moretti traspone le vicende dalla Tel Aviv del romanzo a una palazzina romana dove vivono, su tre piani, le famiglie protagoniste. Drammi famigliari, con lati oscuri, incentrati sui rapporti con i figli, che si dipanano nel corso di vari anni. C’è una coppia di magistrati alle prese con un figlio ribelle che ha investito un passante uccidendolo, c’è una coppia giovane con una figlia piccola spesso lasciata alle cure di due coniugi anziani, il cui marito ormai in stato di demenza senile viene sospettato di aver molestato la piccola; c’è una donna, alle prese con la prima maternità, lasciata sola dal marito che è sempre all’estero per lavoro. Le tre storie sono seguite con montaggio alternato griffithiano, con rari momenti in cui i vari condomini compaiono insieme sulla scena, quello iniziale, dell’incidente, che funziona come presentazione, e quello del corteo funebre dell’uomo anziano, dove si radunano tutti.

Tre piani è un tonfo clamoroso, il primo e si spera l’ultimo nella filmografia morettiana, un film che si disgrega fin dall’inizio in una sceneggiatura banalissima e dozzinale, in recitazioni mediocri, in personaggi dallo spessore psicologico nullo, lasciato all’immaginazione dello spettatore. Soprattutto non si crea mai un’empatia con le figure in scena, neanche negativa come poteva essere il caso del portaborse. Il risultato è che il film ci porta sempre a parteggiare per i soggetti sbagliati. Prendiamo per esempio Andrea, il figlio dei magistrati Dora e Vittorio, personaggio assolutamente negativo, viziato, che ha causato la morte accidentale di una donna investendola mentre guidava in stato di ebrezza, che rinfaccia i genitori di non volerlo aiutare aggiustando o indirizzando il processo con il loro potere all’interno del tribunale. Andrea odia, non si sa perché, i genitori e non vorrà, fino alla fine, accettare la riconciliazione con la madre che invece lei persegue disperatamente. Eppure la donna ha sempre cercato di difenderlo, dentro al processo, cercando testimonianze a lui favorevoli, convinta delle attenuanti della sua condotta. Non possiamo che stare con il padre, un Nanni Moretti che rimane Nanni Moretti, che non può che auspicare una giusta condanna per il figlio. Potremmo ipotizzare però responsabilità paterne nella mancata educazione morale del figlio, ma il film non fornisce alcun elemento in tal senso.

Altrettanto ingiustificata l’ossessione di Giulio per le molestie che la sua figlioletta avrebbe subito dall’anziano Renato mentre si erano persi in un parco, nonostante le perizie mediche escludano che sia stata mai sfiorata. Qui è l’incapacità del lavoro recitativo di Riccardo Scamarcio a rendere poco verosimile questa fissazione del suo personaggio. Come il magistrato Vittorio si trova di fronte a un figlio che ha commesso un reato grave, così Lucio subisce un analogo contrappasso, subendo un processo per stupro, lui che teme che sua figlia sia stata abusata. Ridicolissimo poi il momento in cui la figlia, cresciuta, nega che sia successa qualsiasi cosa quella notte nel parco, sollevando così di colpo il padre da quel suo tormento. Lucio finisce a processo per aver approfittato di una ragazzina minorenne, da sempre innamorata di lui, che gli ha fatto delle avance. Qui ci tocca stare dalla parte dell’uomo accusato di stupro, in un caso in cui effettivamente sappiamo esserci stata consensualità. Gli uomini sospettati di reati sessuali nel film sono innocenti. Relativamente più riuscita la vicenda di Monica e il suo scivolamento nell’instabilità mentale, lasciata sola dal marito mentre è alle prese con la sua prima gravidanza. Questo grazie alla bravura di Alba Rohrwacher, ma anche la sua bambina, nella parte in cui è cresciuta, si rivela come la più vera, nella scena in cui, al supermercato, il padre riceve una telefonata dalla madre, che si è allontanata, e chiede disperatamente e invano che le venga passata. Solo sentendo la sua voce, la madre verosimilmente avrebbe fatto ritorno.

Le situazioni non sono complessivamente mai credibili. Moretti si ricorda di aver fatto Il caimano e inserisce una scena incubo (neanche troppo in realtà), equivalente a quella finale del film su Berlusconi: quella dell’assalto razzista alla struttura di prima accoglienza in cui si reca Dora, ormai alla deriva dopo la morte del marito. Ma si tratta di un momento politico fuori luogo in Tre piani, avulso e non organico del film. Come pure è gratuito quel valzer di strada, che vorrebbe essere magico, catartico, sollevamento poetico dei tormenti della vita. Ma risulta artefatto e posticcio.
Speriamo, per i prossimi film, che Nanni Moretti non continui così a farsi del male.

Giampiero Raganelli

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