Senza confini
«Cos’è la vita? L’armonia tra i cinque elementi. Cos’è la morte? Il disordine tra essi». È così che inizia Tra la terra e il cielo di Neeraj Ghaywan dando subito il polso di quello che sarà il mood in cui ci calerà questo film. Presentato nella sezione “Un Certain Regard” al Festival di Cannes 2015, il lungometraggio del regista indiano ci porta sulle rive del Gange facendoci letteralmente immergere nel fiume e nel bacino sociale, culturale ed emotivo che lo circonda. Durante i primi minuti, però, ciò che cattura lo spettatore è uno dei temi fondamentali dell’opera, che si rivelerà una forza motrice: l’emancipazione. Anche nel nostro occidente abbiamo tante ragioni e questioni su cui ancora affrancarci, eppure quando si assiste a film come Tra la terra e il cielo ci si rende conto delle condizioni altrui e di scelte a cui si è costretti pur di “evadere” da alcuni dictat.
A trasmetterci tutto questo è Devi (Richa Chadda), una giovane ragazza che vorrebbe vivere i suoi anni e che, a causa di regole troppo ferree, si ritrova a segnare la sua vita e quella del padre (Vidyadhar Pathak) per aver avuto un incontro in un albergo a ore – e rimaniamo volutamente ambigui. I due vivono a Benares, un luogo dove vigono la tradizione di bruciare i corpi dei morti e un certo tipo di sacralità. A questo lavoro è legato un altro protagonista, Deepak (Vicky Kaushal), un giovane che forte dello studio e della formazione vorrebbe andare oltre i confini di quella terra natia per allargare gli orizzonti. Nel frattempo, però, deve stare alle condizioni della sua gente e di quella cultura, ma l’amore sarà un altro motore emotivo.
Si dice spesso che le classi sociali non esistono più, ma sottilmente, invece, lavorano ancora nella nostra società. Opere come Tra la terra e il cielo fanno provare sulla pelle e nel cuore cosa voglia dire avere a che fare con questioni di casta e come questo possa costituire delle frontiere tra individui, talvolta amplificate anche dalla scissione provata tra slanci verso la modernità e l’attaccamento alla tradizione.
Sicuramente uno dei pregi di questo lungometraggio sta nella fotografia (nel senso tecnico ed emotivo del termine) che restituisce del paesaggio e dell’humus umano che abita le rive del Gange.
«Per me», ha dichiarato il regista, «il film è un racconto di formazione, in cui il dolore può essere molto positivo e non necessariamente portare alla disperazione assoluta. Inoltre, Benares è conosciuta come “la città della morte” e si dice che chi muore a Benares troverà la salvezza. Ecco perché era fondamentale ambientarvi il film». Tra la terra e il cielo è permeato di un senso di religiosità molto sentito, in linea con il mondo che racconta e che la scrittura riesce a rendere seppur con qualche alto e basso soprattutto sul piano emotivo. A tratti torna in mente The Mirror Never Lies della regista indonesiana Kamila Andini, in cui certo la storia era diversa, ma la natura e la cultura erano a loro modo protagoniste.
In Tra la terra e il cielo cremare sulle rive del Gange è un rito di passaggio fisico e, appunto, religioso, quasi una catarsi che avrà a che fare – di striscio – anche con Devi di cui si segue la storia con un’immedesimazione maggiore, merito dello spessore del personaggio e dei temi che affronta. Questo esordio alla regia di Ghaywan si rivela interessante e ben calibrato fino a quando lo stile asciutto, in linea anche con la giovane, lascia un po’ il posto al sentimentalismo chiudendo il cerchio in un modo che strizza un po’ troppo l’occhio agli spettatori più romantici.
Maria Lucia Tangorra