A spasso nel tempo
Non bisogna attendere i titoli di coda per farsi un’idea su un film come Time Perspectives, perché una volta raggiunto il fatidico giro di boa dell’ora è chiaro e lampante quale siano i reali valori in campo. In effetti i restanti minuti a disposizione di Ciro Sorrentino, che della pellicola ha firmato lo script e la regia, non sono in grado di spostare gli equilibri quel tanto da cambiarne le sorti. Di conseguenza, il risultato che abbiamo potuto vedere nel corso della 19esima edizione del Trieste Science+Fiction Festival, laddove l’opera prima del cineasta di Pompei è stata presentata nella sezione “Spazio Italia”, si va a parcheggiare sotto la soglia della sufficienza a causa di una serie di limiti strutturali e autoriali che ne destabilizzano l’intera architettura.
Il film di Sorrentino mescola fantascienza e avventura, con una spolverata di mistery che mira al contempo a stratificare il racconto e ad aumentare il coinvolgimento dello spettatori di turno nei confronti dell’odissea spazio-temporale del protagonista, un giovane scienziato londinese di nome Ricky che si reca in visita dal padre Riccardo in un villaggio rurale del sud Italia per aiutarlo con i suoi esperimenti scientifici. Ma invece di dimostrare la teoria dell’etere di Tesla, i due inventano accidentalmente la macchina del tempo, e Ricky si trova a dover affrontare tutte le conseguenze di azioni che non ha ancora compiuto.
Time Perspectives va dunque a iscriversi nel ricco e prolifico filone del cinema Sci-Fi costruito sui viaggi spazio-temporali, che ha visto un numero altissimo di pellicole approdare sul grande schermo a tutte le latitudini sin dai primi vagiti del genere in questione nella storia della Settima Arte. Per cui il pubblico ha a disposizione una filmografia vastissima con la quale misurarsi e in continuo aggiornamento, nella quale si possono incontrare opere che hanno lasciato il segno e altrettante cadute nell’oblio. Il film di Sorrentino è solo l’ultimo dei tentativi di variazione sul tema non andato a buon fine. Le cause sono molteplici e messe sotto la lente di ingrandimento denotano nel complesso un’ambizione alla quale il film non riesce a dare un seguito, tanto in termini di continuità quanto in qualità. L’autore punta in alto, strizzando l’occhio a modelli del passato che non sono alla sua portata produttiva e realizzativa. Se non fosse per la buona fotografia di Luca Pischedda, infatti, il film perderebbe ancora più terreno, poiché la regia e gli effetti visivi si dimostrano nel primo caso accademica per via di soluzioni prive di guizzi e nel secondo sin troppo artigianali per dare un contributo importante alla messa in quadro. Basta vedere le scene del teletrasporto di Ricky per rendersene conto.
Venuti meno quelli che da sempre rappresentano i pilastri fondanti del genere e non solo, l’esito subisce un’ulteriore battuta d’arresto a causa delle performance attoriali, discontinue e vittime di una scrittura che ha nei dialoghi e nella costruzione delle one-lines il vero tallone d’Achille. Nemmeno la scelta di affidarsi alla lingua inglese e ad attori stranieri è servito a colmare lacune che vanno ricercate e trovate alle radici, ossia nelle pagine di uno script che mira troppo in alto rispetto ai traguardi che poteva raggiungere.
Francesco Del Grosso