Punto di inevitabile rottura
Dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna. Lo diceva il saggio di turno e lo ribadisce ancora una volta la storia al centro di The Wife – Vivere nell’ombra, trasposizione per il grande schermo dell’omonimo romanzo di Meg Wolitzer firmata da Björn Runge, che approda nelle sale nostrane a partire dal 4 ottobre con Videa a un anno di distanza dalla première al Toronto International Film Festival 2017.
La donna in questione risponde al nome di Joan Castleman, la perfetta moglie devota, estremamente intelligente e ancora molto bella. Quarant’anni passati a sacrificare il suo talento, i suoi sogni e le sue ambizioni per incoraggiare e sostenere la carriera letteraria del carismatico marito Joe, sopportando e giustificando con pazienza le sue numerose scappatelle. Un tacito patto su cui è stato basato il loro matrimonio fatto di compromessi che la sola Joan deve sopportare. Ma dopo tanti anni ha finalmente raggiunto il punto di rottura. Alla vigilia del Premio Nobel, conferito a Joe per la sua apprezzata produzione letteraria, Joan si trova a confrontarsi con il più grande sacrificio della sua vita.
Ovviamente per scoprire a quale sacrificio ci si riferisce rimandiamo alla visione dell’ultima fatica dietro la macchina da presa del cineasta svedese, qui alle prese con un dramma sentimentale ed esistenziale che si traduce in una celebrazione della donna, dell’autodeterminazione e del riscatto. Condizioni, queste, che mai come in quest’ultimi mesi così tanto turbolenti si sposano e sono in perfetta sintonia con la sommossa femminile e femminista sul tema della rivendicazione dei diritti ingiustamente troppe volte schiacciati e soffocati. Ma The Wife è anche una storia sull’amore, sul matrimonio e sui segreti intimi, quelli che possono unire o allo stesso tempo allontanare e soffocare uno o entrambe le parti. Nel raccontare la storia di un lungo matrimonio basato sulla passione, sull’ambizione e su un enorme compromesso che alla fine, dopo molti anni, si spezza, in The Wife troviamo un esame tenero e complesso delle relazioni di mezz’età e un affascinante sguardo sulla natura umana nelle sue molteplici forme.
Il romanzo della Wolitzer prima e lo script di Jane Anderson poi basano le rispettive fondamenta narrative e drammaturgiche sulle suddette tematiche. Tuttavia, pur seguendo il più fedelmente possibile il plot-driven della trama originale, in fase di adattamento la Anderson ha dovuto apportare delle leggere modifiche per dare un’ulteriore spinta all’opera cinematografica, quanto basta per consentirle di dialogare meglio con lo schermo. Se la non linearità del racconto fatta di palleggi spazio-temporali che con flashback interrompono il presente narrativo (gli anni Novanta) è rimasta invariata, al contrario i correttivi spostano l’azione principale da Helsinki a Stoccolma, con il premio che da indefinito si trasforma nell’ambito Nobel per la letteratura per aumentare in maniera esponenziale la posta in gioco. Scelta a nostro avviso vincente che sarà determinante ai fini della presa di coscienza della protagonista e dell’innesco della reazione a catena. Il tutto sotto gli occhi del personaggio del figlio della coppia, quest’ultimo relegato nelle pagine del libro a comprimario appena delineato e nel film, invece, elemento determinante per lo sviluppo sulla timeline di una seconda linea – altrettanto importante – di conflitto, ossia quello generazionale tra un padre inarrivabile e un uomo oramai adulto e frustrato costretto a misurarsi con una figura blasonata che lo getta nell’ombra.
Ciò che frena, però, la corsa della pellicola di Runge verso vette più elevate è l’incapacità della trasposizione di mantenere la stessa forza e consistenza narrativa nel suo progredire. L’ultimo atto ha un peso specifico che i precedenti non riescono ad eguagliare e il merito è in primis del crescendo emotivo, drammaturgico e attoriale che si materializza sullo schermo. Dalle scene immediatamente a ridosso della cerimonia di consegna del Nobel all’epilogo, quando tutte le carte in gioco vengono finalmente svelate, l’opera offre tutto il suo meglio alla platea di turno con la coppia formata da Glenn Close e Jonathan Pryce che fa scintille davanti alla cinepresa e il regista svedese che si limita a mettere in quadro il loro coinvolgente duetto. Questo per dire che se i primi due atti avessero avuto la medesima sostanza, efficacia e consistenza di quello conclusivo, quasi sicuramente il giudizio sarebbe stato ancora più positivo. Peccato!
Francesco Del Grosso