Tale bano, tale figlio
Non è certo la prima volta che il cinema d’animazione più “adulto” si presta a raccontare la follia criminale dei Talebani e del fondamentalismo islamico. Basti pensare a I racconti di Parvana – The Breadwinner dell’irlandese Nora Twomey. Non la vetta più alta delle produzioni targate Cartoon Saloon, considerando che prima erano venute due indimenticabili fantasie celtiche, The Secret of Kells (2009) e Song of the Sea (2014), una di ispirazione più antica e l’altra di ambientazione contemporanea. Ma in ogni caso anche il lungometraggio di Nora Twomey datato 2017 era riuscito a dire la sua su un argomento difficile, mescolando le tonalità cupe del presente alla grazia senza tempo di un riuscito esempio di storytelling, vicino per quelle mitopoietiche cadenze mediorientali a Le mille e una notte.
Con The Swallows of Kabul (Le rondini di Kabul, 2019), visionato nel corso del Soundscreen Film Festival 2020, si torna in Afghanistan, quello del recente passato che la conquista del potere da parte dei Talebani aveva fatto regredire al Medio Evo: esecuzioni barbare, applicazione estremista e fanatica di certe norme religiose, sottomissione totale della donna all’uomo, proibizioni d’ogni sorta. Tra divieto di ascoltare musica occidentale, figure femminili mestamente sigillate nei loro burqa e lapidazioni in piazza, questo è l’allucinante scenario proposto dal film, sin dalle battute iniziali.
Avvertenze per l’uso: The Swallows of Kabul può quindi risultare una delle visioni più strazianti, nel panorama dell’animazione contemporanea, assieme a Valzer con Bashir di Ari Folman e a Persepolis di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud. Tutti frammenti di realtà cancerogene, degenerate, in cui il ricorso al disegno non fa che rendere più visionario e struggente il progressivo venir meno della normalità quotidiana.
Ispirato ad un romanzo di Yasmina Khadra, spiazzante pseudonimo dello scrittore algerino Mohammed Moulessehoul, il film diretto da Zabou Breitman ed Eléa Gobé Mévellec contrappone le ragioni della vita, della bellezza e dell’arte al tetro rigore di una teocrazia disumana, priva di scrupoli. Nella vibrante parabola di personaggi come Zunaira e Mohsen, giovani innamorati ostili al regime, vi è il tentativo, frustrato da una sorte beffarda, di sottrarsi a quella morsa crudele. Ma anche se la loro silenziosa ribellione andrà incontro ad esiti drammatici, un barlume di speranza verrà proprio dal sacrificio non meno nobile di chi, pur avendo collaborato coi Talebani, aveva già cominciato ad elaborare una propria presa di coscienza.
Le lodevolissime finalità civili e umanitarie del lavoro di Zabou Breitman ed Eléa Gobé Mévellec si sposano poi con alcune soluzioni folgoranti, sia sul piano drammaturgico che su quello visivo. Tale è il ricorso alla soggettiva dal burqa, immagine del mondo ridotta a una grata ed esemplare metonimia delle sadiche, assurde privazioni imposte dai Talebani. Parimenti emblematica è quella malinconica dissolvenza, che dopo averci mostrato l’uscita di un cinema in quel passato ancora libero e spensierato, inesorabilmente cancellato dalla guerra, ne rivela senza remore la successiva trasformazione, compiutasi nel nome di uno squallore umano ed estetico eletto a sistema.
Stefano Coccia