L’unica via di fuga
Alla lettura della line-up della 36esima edizione del Trieste Film Festival, che si sa essere il primo e principale appuntamento italiano dedicato al cinema dell’Europa centro orientale, ci siamo subito chiesti il perché della presenza di una pellicola come The Shameless in cartellone, per di più in concorso. Il film in questione, giunto nella kermesse giuliana in anteprima italiana dopo un fortunato percorso iniziato nella sezione Un Certain Regard del 77° Festival di Cannes, dove tra l’altro la protagonista Anasuya Sengupta si è aggiudicata il premio per la migliore attrice, conduce lo spettatore ben oltre i confini delle aree geografiche e delle cinematografie sulle quali la manifestazione è solita concentrarsi. Qui addirittura si è volati a migliaia di km di distanza per sbarcare in India e raccontare la storia di Nadira, una coraggiosa prostituta costretta a scappare da un bordello di Delhi dopo aver pugnalato a morte un poliziotto violento. La donna prende rifugio temporaneo in una comunità di prostitute nel sud del Paese chiamata Chhatarpur, assumendo il nome indù Renuka anche per nascondere la sua identità musulmana. Qui incontra e si innamora della diciassettenne Devika, provocando la sua ribellione contro la madre e l’opprimente secolare istituzione delle dediche religiose. Il loro legame si trasforma in una storia d’amore proibita. Insieme, intraprendono un viaggio pericoloso per sfuggire alla legge e costruirsi un futuro verso la libertà.
A raccontare sul grande schermo questa drammatica e dolorosa vicenda ambientata nell’India meridionale è stato il cineasta bulgaro Konstantin Bojanov. Ecco svelato il motivo della presenza del film in questione nella selezione della kermesse giuliana, ossia le origini di colui che lo ha realizzato, che con The Shameless ha firmato lontano dalla sua terra natia il suo terzo lungometraggio in tredici anni di carriera. Una carriera che tra l’altro lo ha portato a trasferirsi oltreoceano per andare a vivere e lavorare negli Stati Uniti. Ed è lì che ha fatto il suo campo base ed è sempre da lì che è partito alla volta del mondo per andare a raccontare storie di fughe. Tutte le sue opere infatti parlano di questo, di persone che per un motivo o per un altro abbandonano le rispettive terre: in Avé si trattava di un’affascinante adolescente bugiarda che cercava di sfuggire ai confini soffocanti della sua ricca famiglia iperprotettiva, mentre in Light Thereafter il giovane protagonista autistico si liberava dal suo perplesso universo interiore grazie all’adorazione che nutriva per il suo idolo artistico. Nella sua nuova fatica dietro la macchina da presa, dopo ben sette anni di silenzio dall’ultima, parte proprio con una fuga nel cuore della notte, quella di una prostituta che scappa per salvarsi da ritorsioni a seguito di un’omicidio compiuto probabilmente per legittima difesa da un cliente. Un incipit, questo, che sembra il classico innesco dal quale partire per tessere le trame di un crime. Gli ingredienti base sembrano esserci tutti, ma la scrittura dello stesso Bojanov decide invece di prendere altre strade, andando a percorrere quelle del melodramma lesbo a tinte noir e del film di denuncia. Queste linee scorrono parallelamente per tutta la restante e corposa timeline a disposizione: da una parte c’è il racconto di un amore impossibile, dall’altra l’urgenza tematica di accendere un faro sulle terribili condizioni di vita delle donne indiane, costrette loro malgrado a lottare per non soccombere in una società dominata da una mentalità maschilista radicata nella religione. Il ché fisiologicamente ha portato l’autore ad allargare gli orizzonti narrativi e drammaturgici anche ad altre problematiche dal peso specifico rilevante che permangono nell’odierna comunità indiana, a cominciare dalla corruzione a più livelli e il divario tra le caste in una società babilonica dove le disuguaglianza socio-economiche sono abissali e rappresentano un ostacolo per la sopravvivenza.
Sul piano delle argomentazioni trattate The Shameless non ha timori reverenziali e non si tira mai indietro, con lo sguardo esterno dato dal suo autore che è utilissimo per avere la giusta distanza critica e analitica. Mostra e dice, con le “armi” in suo possesso, tutto quello che c’è da mostrare e dire per denunciare, mettendo in scena e in quadro la crudezza e la brutalità delle condizioni e degli abusi compiuti ai danni di figure femminili inglobate in realtà complesse, violente e guerresche, ma anche quello che provano a fare per combatterle e ribellarsi, come nel caso delle due protagoniste. Al contempo, il cineasta bulgaro decide di farlo con una cifra stilistica che abbraccia l’iper-realismo, con una fotografia, curata da Gabriel Lobos, che estremizza i toni dei colori e degli scuri. Un approccio decisamente di genere che serve probabilmente al regista per intercettare un pubblico più vasto ed eterogeneo, con lo scopo chiaro di portare all’attenzione di esso le suddette tematiche. Il ché è strategicamente logico, funzionale e utile alla causa, con lo smarcarsi dal realismo e da certi paletti che avrebbero potuto limitare il campo d’azione e disinnescare l’arma di denuncia. Questo non significa però che ciò che viene narrato e trasposto con sicurezza e molteplicità di soluzioni tecniche non sia vero e realistico. La ferocia delle immagini, del racconto e delle interpretazioni (su tutte quelle di Anasuya Sengupta e Omara Shetty) lo testimoniano. Dove al contrario il film mostra le sue fragilità è nella struttura fin troppo convenzionale del veicolo di trasmissione narrativo, ma anche nella coesistenza delle varie anime che lo vanno a comporre.
Francesco Del Grosso