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Wonderland

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VOTO: 8

Il giorno del giudizio

Più che il titolo internazionale, ossia Wonderland, è l’originale Heimatland a rendere meglio l’idea del contenuto e del messaggio (non della morale spicciola) del quale il film in questione si fa portatore; dove dal tedesco la parola “heimat”, cinematograficamente parlando portata alla ribalda dall’omonima epopea di Edgar Reitz, significa appunto “Patria”. Quest’ultima non è, però, quella tedesca, bensì la Svizzera, lì dove un gruppo formato da dieci registi elvetici ha deciso di trascinare il pubblico di turno per raccontare una dolorosa, inquietante e maledetta storia di non redenzione, ma soprattutto di punizione terrena e divina.
È autunno e la stagione fredda sta arrivando. Un’immensa nube inquietante appare improvvisamente all’orizzonte. Gli esperti di meteorologia non sanno spiegare lo strano ed inquietante fenomeno ma una cosa è certa: sta crescendo e non aspetta l’ora di manifestarsi in tutta la sua bellezza devastatrice. La popolazione non può che aspettare inerme lo sviluppo della tempesta. La gente reagisce in vari modi alla situazione: la ignora in una ricerca edonistica estrema, si barrica in casa (dopo aver svaligiato selvaggiamente i grandi magazzini) o ancora cerca di fuggire all’estero, quell’estero che prima faceva tanta paura ma che ora sembra la Terra promessa. Questa logorante attesa mette in avanti la vera natura delle persone, la loro rabbia repressa, le loro aspettative mal celate o ancora le loro vere paure.
Come avrete avuto modo di intuire dalla lettura della sinossi, i toni, i colori, i personaggi e soprattutto la vicenda narrata, non hanno nessun elemento in comune con la saga familiare raccontata anni fa da Reitz. Quello diretto dalla compagine svizzera, presentato nella selezione ufficiale dell’ultimo Festival di Locarno e tra i sei lungometraggi in concorso alla 14esima edizione della Ravenna Nightmare Film Festival, è un film apocalittico ambientato tra i bucolici paesaggi elvetici. Si perché, a pensarci bene, la Svizzera non è proprio la cornice “ideale” – e a memoria non ci sembra lo sia mai stata – dove ambientare un’opera e una vicenda come quella al centro di Wonderland. E questo è già un ingrediente molto importante nel ricco menù che andremo qui di seguito a illustrare e ad analizzare. In primis va, dunque, messo bene in evidenza il suddetto aspetto, che rappresenta un elemento chiave per l’intera operazione e per il messaggio che vuole trasmettere allo spettatore. La scelta di collocare la storia in una nazione come quella elvetica è estremamente significativa, per certi versi dichiaratamente politica. Ci troviamo, a nostro avviso, al cospetto a un’opera che ha il Dna di un film politico che, a suo modo e con le “armi” in suo possesso, punta il dito contro un Paese che non si è mai schierato, preferendo la neutralità, ma che soprattutto non ha mai accettato di buon grado di ospitare e accogliere coloro che vengono da oltreconfine; lo straniero in poche parole e la diffidenza nei suoi confronti. Ed è proprio verso questo protezionismo e questa non sentita apertura, entrambi ben nascosti da un popolo e da chi li governa sotto una maschera di finta bontà, che si scaglia con tutta la sua forza la pellicola.
Per farlo, gli autori propongono una variante non banale del tema apocalittico, che prova a percorrere strade non sempre battute dallo sterminato immaginario letterario e cinematografico. Per la precisione, bisognerebbe parlare, infatti, di film pre-apocalittico, poiché l’intera vicenda si svolge nelle 24 ore che precedono il disastro. L’impostazione e l’approccio alla materia più vicini ci sembrano quelli avuti da Jeff Nichols in Take Shelter o dalla coppia formata da Peter Brosens e Jessica Woodworth per il loro La quinta stagione. Si tratta di una precisazione necessaria ai fini di una corretta lettura e di una altrettanto corretta fruizione. In questo caso, le nuvole sul cielo della Svizzera si fanno sempre più nere e minacciose, con la tempesta che da un momento all’altro pare destinata a spazzare via tutto e tutti, senza nessuna pietà, indistintamente dalla classe sociale di appartenenza e dal fatto che si tratti di innocenti o di colpevoli. Tutti hanno un lato oscuro, degli scheletri nascosti nell’armadio, nessuno escluso e i cittadini svizzeri non fanno eccezione. Quella di cui si parla è una colpa collettiva, per questo motivo in Wonderland il punto di vista dal quale osservare e vivere gli accadimenti non è unico, ma si appoggia a una moltitudine che corrisponde ad altrettanti personaggi. La timeline salta da una dinamica all’altra, seguendo in montaggio alternato diverse storie e come la paura, la violenza e il caos, si manifestano dentro e attraverso di esse. Insomma, il giorno del giudizio sembra dunque arrivato e ogni riferimento biblico non è assolutamente casuale.
Il cinema di genere, quando fatto in un certo modo e con i giusti crismi, sa anche svincolarsi dai soli compiti di intrattenitore a buon mercato, per diventare un’efficace arteria lungo la quale fare scorrere tematiche e argomentazioni scottanti, attuali e dal peso specifico non indifferente. E questo è il caso di Wonderland, dove dieci giovani registi connazionali (Lisa Blatter, Gregor Frei, Jan Gassmann, Benny Jaberg, Carmen Jaquier, Michael Krummenacher, Jonas Meier, Tobias Nölle, Lionel Rupp e Mike Scheiwiller), di diversa formazione e stile, hanno unito le loro menti creative per dar vita ad un progetto che assume i connotati di una bomba ad orologeria destinata ad esplodere in faccia al conformismo ben pensante.

Francesco Del Grosso

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