Reazione a catena
Di amori segreti, consumati clandestinamente nell’ombra a causa di conflitti politici, ideologici, sociali, culturali o religiosi, ne sono passati sul grande schermo e a tutte le latitudini, tanto che è praticamente impossibile stilare una filmografia in grado di accogliere i milioni di titoli prodotti in un secolo e passa di storia della Settima Arte. Del resto, l’universalità di un sentimento come l’amore, nelle sue svariate manifestazioni e sfumature, lo rende imprescindibile, indipendentemente che questo venga contrastato oppure no.
Nell’opera seconda di Muayad Alayan dal titolo Sarah & Saleem (The Reports on Sarah and Saleem, il titolo internazionale) già vincitrice del premio del pubblico al Festival Internazionale del Cinema di Rotterdam 2018, a metterlo in discussione è un Muro, che in questo caso non è solo metaforico ma anche maledettamente fisico. Il Muro in questione, onnipresente anche quando non viene catturato dalla macchina da presa, è quello che separa Gerusalemme da Betlemme, una barriera di cemento denominata security fence (chiusura di sicurezza) alta 8 metri, che si estende su un tracciato di 730 km ed eretta formalmente con lo scopo d’impedire l’intrusione dei terroristi palestinesi nel territorio nazionale. Una barriera, questa, diventata di fatto un ulteriore ostacolo, più volte sporcato dal sangue, nel processo di pace dell’infinito conflitto israeliano-palestinese. La stessa barriera si trasforma ora in un confine invalicabile che rende impossibile una relazione extraconiugale tra una donna israeliana e un uomo palestinese, che in un battito di ciglia assume una pericolosa dimensione pubblica quando i due vengono avvistati nel momento sbagliato nel posto sbagliato. Tra colpi di scena e circostanze imprevedibili, Sarah e Saleem si ritrovano coinvolti in una situazione più grande di loro, che trascende le responsabilità familiari per diventare un caso politico.
The Reports on Sarah and Saleem, presentato tra le “Anteprime Internazionali” della nona edizione del Bif&st prima dell’uscita autunnale nelle sale nostrane con Satine Film, è un dramma sentimentale e umano che cambia pelle per trasformarsi in un thriller politico ad alta tensione. Quella firmata da Alayan e un’odissea che non nasce dall’immaginazione dello sceneggiatore di turno, ma da una vicenda realmente accaduta, che ha visto una questione privata smettere di essere tale, come una goccia d’acqua che si riversa in un mare in tempesta. Mutazione drammaturgica e narrativa, questa, che si materializza sulle pagine dello script prima e sullo schermo poi attraverso una profonda spaccatura che crea a sua volta un solco tra due atti precisi e distinti, dove a cambiare non è solo la sfera che da intima si fa pubblica, ma anche il punto di vista. Il testimone nella seconda parte passa, infatti, ai rispettivi coniugi dei protagonisti, spostando l’attenzione principalmente su di loro e sulle conseguenze che il tradimento ha provocato. Ciò che si innesca è una vera e propria reazione a catena, un effetto domino che segnerà in maniera indelebile il destino di tutte le persone coinvolte.
La forza dell’opera sta proprio in questa scelta di cambiare drasticamente pelle, attraverso un’incisione netta che restituisce allo spettatore di turno due film in uno. Lo script e le sue evoluzioni, alcune delle quali emotivamente d’impatto (vedi l’arresto di Saleem o lo scontro verbale tra Bisan e Sarah nel bar), sono le basi e al tempo stesso le ramificazioni efficaci su e attraverso le quali la storia prende forma. Il racconto nella sua interezza, i colpi di scena che cambiano le carte in tavola e i meccanismi che lo muovono, riescono a tenere a sé l’attenzione dello spettatore, nonostante sulla fruizione pesino delle fasi di stallo e delle digressioni che appesantiscono la timeline e la rendono meno scorrevole. In tal senso, un alleggerimento attraverso un’asciugatura di entrambe le parti avrebbe giovato alla causa. Quei venti minuti circa di troppo, che spingono la durata della pellicola al di là della soglia delle due ore, nell’economia dell’opera si fanno sentire. Tuttavia non mettono in discussione la qualità del lavoro davanti (in primis da sottolineare la perfomance di Maisa Abd Elhadi nei panni di Bisan) e dietro la macchina da presa.
Francesco Del Grosso