Il pifferaio matto
Laddove alle nostre latitudini la Cortellesi si impegna addirittura in ambito accademico, stendiamo pure un velo pietoso, per dimostrare quanto le fiabe tradizionali siano a suo avviso “sessiste”, più a Nord vi è la tendenza a rivisitarle cinematograficamente con ben altro spirito. Ad esempio esaltandone quell’ombra cupa, sanguinaria e terrificante spesso solo accennata, nelle versioni più edulcorate. Poteva così capitare che in Trasporto eccezionale – Un racconto di Natale (Rare Exports, 2010) del finnico Jalmari Helander il Mito stesso di Babbo Natale finisse per essere riadattato, trasfigurato, attraverso il riemergere dalle antiche leggende di una spaventosa creatura. Con Il pifferaio di Hamelin ci troviamo invece di fronte una favola che parecchio inquietante lo è sempre stato di suo. E il cineasta islandese Erlingur Thoroddsen, scegliendola quale sostrato di un horror visionario e crudele, non ha fatto altro che metterci il carico da undici…
Erlingur Thoroddsen, qui al suo terzo lungometraggio (il primo, peraltro, realizzato negli Stati Uniti e quindi in un contesto anglosassone), in The Piper ha scelto inoltre di confrontarsi con un altro topos ragguardevole, nella storia del cinema horror: ovvero il tema della musica maledetta, delle note portatrici di morte, di quei musicisti il cui sogno è sempre sul punto di trasformarsi in un incubo.
La musica come ossessione, insomma, dietro la quale possono celarsi pericoli mortali. Piuttosto recente è per noi la visione dell’ennesimo, visionario capolavoro del cinema giapponese, My Mother’s Eyes, realizzato da quel Takeshi Kushida la cui ricerca di prospettive originali per il genere ci era già parsa evidente nel precedente Woman of the Photographs (Shashin no onna, 2020). In My Mother’s Eyes un morboso rapporto madre-figlia ruotava quindi attorno agli archi.
Tornando invece nella rapsodica “orchestrazione” dei nostri discorsi al settore dei fiati, le aspirazioni di questa rivisitazione del “pifferaio di Hamelin”, almeno rispetto all’autorialità e alle geniali intuizioni del lungometraggio nipponico testé citato, non paiono altrettanto elevate, ma conducono comunque verso un horror conturbante, atmosferico, di discreta fattura.
Battiato cantava (ci si perdoni qui l’estemporaneo ritorno agli archi): “E lo sapeva bene… Paganini / Che il diavolo è mancino, e subdolo / E suona il violino”.
Subdola, diabolica, è qui la misteriosa figura incantatrice della fiaba, capace di riemergere da un tenebroso passato per condurre su un sentiero di perdizione e dolore bambini (come tradizione vuole) e orchestrali. Sì, perché già nell’allucinato prologo (una delle sequenze migliori del film) assistiamo alla terrificante uccisione dell’affermata compositrice Catherine Fleischer, che scopriremo essersi fatta troppo ispirare da quell’ombra, per creare la propria musica. E sarà poi, all’interno di una prestigiosa filarmonica, la rivalità tra la protagonista Melanie e l’ambizioso Franklin, collega con meno talento (e molti meno scrupoli) sostenuto però dal dispotico direttore d’orchestra Gustafson, a creare i presupposti giusti affinché quello spartito maledetto e la sinistra creatura che ne è artefice vero tornino a colpire.
Pur non sfruttando fino in fondo le potenzialità dello script, l’islandese Erlingur Thoroddsen è riuscito a trasportare un po’ di brume nordiche nel panorama spesso annacquato dell’horror americano contemporaneo. Avvalendosi peraltro di un cast sufficientemente ispirato: a dir poco sontuosa, più di ogni altra, l’interpretazione di uno spiritato Julian Sands, il direttore d’orchestra, qui alla sua ultima apparizione su un set prima della tragica scomparsa.
Stefano Coccia