Il peso del non detto
Basterebbero i primi minuti di The Pass (opera d’apertura del BFI Flare di Londra, transitata in questi giorni al 32° Lovers Film Festival di Torino), con i suoi scherzi rudi e le sue esibite dimostrazioni di machismo, per restituire il senso di un mondo chiuso in sé stesso e regolato da un cameratismo virile che non ammette differenze, contraddizioni o qualsiasi messa in discussione.
Un mondo che conoscono bene Jason e Ade – promesse della Premier League inglese all’alba del possibile punto di svolta della loro carriera – quando, chiusi in una camera d’albergo, danno inaspettatamente sfogo ai loro desideri, andando incontro a conseguenze che segneranno irrimediabilmente il loro futuro.
Mantenendo la forte (ed estremamente efficace) impostazione teatrale dell’omonima opera di John Donnelly (qui anche sceneggiatore), l’esordiente Ben A. Williams affronta il delicato tema dell’omosessualità nel mondo del calcio prendendo di petto un tabù estremamente duro a morire.
Lo fa dividendo il film in tre parti: tre scene, tre differenti camere d’albergo, tre sbalzi temporali, per raccontare fallimenti e rinunce, menzogne e privazioni di due giovani uomini alle prese con i loro sentimenti, e per interrogarsi su cosa sia e cosa significhi, realmente, essere realizzati in un sistema irrimediabilmente omofobico.
Negli incontri/scontri tra i due protagonisti (i bravissimi Russell Tovey e Arinzé Kene) e i pochi, valenti, comprimari, va così in scena un dramma claustrofobico e opprimente, dove le verità sono sempre parziali, contraddittorie, bisbigliate tra i denti e poi subito rimangiate, e i sentimenti – ora sinceri ora simulati – non sempre vanno a braccetto con le azioni in un mondo dove l’immagine e l’apparenza sono tutto ciò che conta.
Quanto ha influito quella singola notte nelle vite di Jason e Ade? Quanto ne ha segnato le scelte, i rimorsi, i rancori?
Riassumendo dieci anni di vita attraverso tre differenti e lussuose istantanee, Williams – tra primi piani e intensi scambi di battute – non dà facili o univoche risposte, né si perde in altrettanto facili parabole moraleggianti, limitandosi, piuttosto, a far muovere, litigare, amare, i suoi personaggi, corpi perennemente combattuti tra il calcolo e il sentimento, vittime, loro malgrado, di un’omertà che soffoca sogni, aspirazioni ed esistenze.
Mattia Caruso