Scacco al re
Nel gioco degli scacchi la variante del Dragone è una disposizione dei pedoni neri sull’ala del re che ricorda, appunto, la costellazione del Drago. Con tale disposizione il re è praticamente inattaccabile, chiuso com’è da una così solida difesa. Tale disposizione sembra essere particolarmente apprezzata da Samuel, giocatore di scacchi professionista che si divide tra un torneo ed una lezione, cercando di trovare del tempo anche per la sua figlioletta, nata da un matrimonio ormai finito da tempo. Analogamente al re, l’uomo, in realtà, si è chiuso al mondo esterno, usando gli scacchi come difesa verso tutto ciò che possa attaccarlo. Stessa sorte, a quanto pare, è toccata ai suoi due migliori amici: un orologiaio che si ostina a mandare avanti un’attività che sembra ormai rendere poco da solo, senza chiedere aiuto a chi potrebbe realmente cambiare le cose ed un omeopata con il vizio del gioco d’azzardo, che sembra trascurare l’unica persona che per anni gli è stata realmente vicina, ossia la sua compagna. Tre storie parallele che, dunque, non sembrano affatto promettere una futura apertura nei confronti del mondo esterno e della vita stessa, dunque. O forse no? In ogni caso, tre storie con tre personaggi con i quali fin da subito si riesce ad instaurare un solido legame. Stiamo parlando dei tre protagonisti di La defensa del dragón, opera prima della giovane produttrice e sceneggiatrice colombiana Natalia Santa, presentata in anteprima alla Quinzaine della 70° edizione del Festival di Cannes e che ha fatto di Santa la prima donna colombiana a prendere parte all’importante manifestazione cinematografica.
Giovane sì. “Inesperta”, se vogliamo, abbastanza, data la sua scarsa esperienza – diretta, almeno – dietro la macchina da presa. Eppure Natalia Santa con questa sua opera prima ha indubbiamente dimostrato una grande maturità registica e stilistica. Analogamente alle vite dei tre personaggi, la macchina da presa evita volutamente inutili virtuosismi, ma, al contrario, predilige inquadrature fisse con una composizione del quadro spesso eccessivamente statica, quasi come se, come avviene per il gioco degli scacchi, appunto, si volesse a tutti i costi rispettare uno schema. Samuel, il protagonista – interpretato dal bravo Gonzalo Sagarminaga, autore anche di gran parte delle musiche – dal canto suo sembra faticare non poco ad abbandonare tale schema, sicuro com’è all’interno di quel mondo apparentemente perfetto – ma in realtà piuttosto frustrante – che si è costruito intorno nel corso degli anni. E la regista, di fronte a tutto ciò, cosa fa? Semplicemente si limita ad osservare ciò che accade, senza voler a tutti i costi far sentire la propria presenza, ma facendo sì, allo stesso tempo, che lo spettatore noti ogni singolo dettaglio di ciò che circonda i personaggi stessi, entrando, così, in contatto con loro fin dai primi minuti.
Un’opera, questa, che, in quanto “piccolina”, rischierebbe ingiustamente di passare quasi inosservata. Eppure c’è da riconoscere che Natalia Santa ci ha regalato un vero e proprio gioiellino, molto personale, sottile e privo di sbavature. Per molti versi addirittura meglio riuscito di alcuni lungometraggi presenti in concorso. Che sia (anche) merito dell’ottima scuola sudamericana che da anni ci regala, spesso e volentieri, piacevoli sorprese? Può darsi. Ad ogni modo, l’attenzione che il Sudamerica dedica ogni anno ai nuovi nomi che si affacciano sulla scena è non solo encomiabile, ma dimostra anche un’apertura ed una voglia di sperimentare all’interno di un campo che senza tali elementi rischia di diventare angusto, stagnante. Praticamente morto. E in Italia, fatte poche eccezioni, purtroppo ne sappiamo qualcosa.
Marina Pavido