Un film sulla violenza: nei confronti della donna… o dello spettatore?
Avvertenze per l’uso: se il titolo del film evoca in voi ricordi di ottimo cinema, sicuramente vi state confondendo con Girotondo, giro intorno al mondo, il gioiellino realizzato nel 1998 da Davide Manuli. Oltre ad avere un titolo decisamente più corto, Girotondo di Tonino Abballe è lontano anni luce dal validissimo modello di produzione cinematografica indipendente che abbiamo testé citato. E il sapere che un prodotto così modesto verrà a breve distribuito in decine di copie ci ha lasciato non poco sconcerto.
L’incipit del lungometraggio di Tonino Abballe rivela in realtà certe pretese formali, le quali, non supportate da una reale consapevolezza estetica, si trasformeranno strada facendo in un grottesco contrappunto alla pochezza della sceneggiatura, degli interpreti e dello stesso impianto registico. Partiamo proprio dall’inizio. Una lunga (e a dire il vero macchinosa) panoramica in riva al mare si ferma su quel moletto, dove vediamo una ragazza di spalle. In cielo viene a comporsi il titolo, Girotondo, grazie a un effetto (anche sonoro) che ricorda le vecchie macchine da scrivere. Con una specie di “tendina” il titolo scompare. E a quel punto la videocamera tenta uno zoom dall’esito rischioso, visto che l’obiettivo sembra avvicinarsi, in modo un po’ pacchiano, alle terga della giovane donna…
“Fortunatamente”, esauritosi il prologo, scopriremo che la finalità di tali riprese non era citare l’ultimo Tinto Brass, la sua peraltro stimabile propensione per il fondoschiena femminile, bensì introdurre una serie di storie diverse che a mo’ di seduta psicanalitica andranno a scandagliare un tema difficile, delicato, come quello degli abusi fisici e psicologici compiuti da uomini sulle donne. Lodevole intento. Peccato, però, che il risultato finale sarà più simile a una violenza prolungata nei confronti dello spettatore, costretto a subire dialoghi improbabili, interpreti visibilmente spesati e soluzioni registiche a dir poco kitsch.
La stessa idea dei personaggi che espongono le loro vicende al terapista di turno, in un ameno giardinetto, appare a dir poco abusata: il cinema italiano cosiddetto “impegnato” sembra non poter fare proprio a meno della psicanalisi, ultimamente, specie se infarcita di banalità, luoghi comuni e problematiche buone per contesti salottieri. Qui poi si rischia il ridicolo, con scambi di battute e tirate sull’amore che farebbero arrossire Moccia, il tutto declamato da personaggi come quella psicologa dall’aria un po’ coatta, il cui eloquio fa tanto shampista in un film di Verdone o Neri Parenti. Purtroppo, però, Girotondo non si proponeva di essere una commedia. Così storie di violenze sessuali e intimidazioni psicologiche si susseguono disordinatamente, abbinando semplificazioni sul versante caratteriale a dinamiche pretestuose, svilendo quindi il tema invece di conferirgli il giusto valore. I pochi interpreti maturi e con un percorso interessante alle spalle, nella fattispecie Antonella Ponziani e Armando De Razza, sembrano a loro volta perdersi in un bicchier d’acqua, annichiliti da siparietti scialbi e inutili. Mentre da parte nostra ci si sta ancora chiedendo quale irrinunciabile funzione avessero quelle scenografie cartoonistiche, animate (male), che fanno capolino di tanto in tanto a movimentare, se così si può dire, la narrazione…
Stefano Coccia