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The Imitation Game

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VOTO: 6

Rebus di guerra

La categoria dei biopic riveduti e corretti in salsa anglo-hollywoodiana (nel caso specifico) può contare su un ulteriore esempio di dibattito, con il pubblico, prevedibilmente, a gradire e la critica a mostrare qualche inevitabile riserva. The Imitation Game racconta la storia di Alan Turing, l’uomo che – grazie anche ad un prezioso gioco di squadra – riuscì a decifrare il codice usato dalle trasmissioni radio naziste durante la Seconda Guerra Mondiale, il celeberrimo “Enigma”, e di conseguenza ad agevolare la vittoria alleata contro le armate di Hitler.
In un mondo (cinematografico) ideale The Imitation Game sarebbe stato principalmente un film sulla duplicità umana, sospeso tra genialità professionale – Turing, per raggiungere lo scopo, mise a punto uno dei primissimi prototipi di computer – e frustrazioni esistenziali, con un omosessualità impossibile da esplicitare in quanto considerata in Gran Bretagna al tempo reato da punire penalmente. Senza contare, appunto, il ritratto sociale dell’epoca nonché il senso epico di un’impresa – quella appunto di dare una svolta al conflitto grazie all’intuizione umana – da molti ritenuta impossibile. Ebbene, tra tutte queste pregnanti componenti solo quest’ultima, a tratti, riesce a vedere la luce nel film scolasticamente diretto dal norvegese Morten Tyldum, ben lontano dall’originalità del precedente Headhunters (2011) e per l’occasione scelto semplicemente al fine di trasporre in immagini la pavida sceneggiatura di Graham Moore tratta dal romanzo di Andrew Hodges. Un compitino, insomma, ben confezionato da un punto di vista formale, ma lontano da un autentico approfondimento sulle figure psicologiche dei vari personaggi; non solo del protagonista ma anche di quelli di contorno, con una Kiera Knightley di nuovo purtroppo retrocessa al ruolo di soprammobile più o meno inutile come accadeva nel cinema “classico” di parecchi decenni orsono per le parti femminili. Proprio di classicismo fuori tempo massimo si potrebbe parlare se si volesse dare a tutti i costi una definizione di The Imitation Game, pellicola interamente costruita sull’indubbio talento e l’impronta da divo in ascesa di Benedict Cumberbatch: senza la sua totale compenetrazione, soprattutto fisica, nel ruolo, l’intero progetto avrebbe corso il serio rischio di deragliare alla prima curva, peraltro appesantito da una narrazione abbastanza macchinosa che si snoda su tre piani temporali differenti e alternati. L’unico dei quali ad avere realmente un senso emozionale è quello centrale, cioè inerente all’ambientazione bellica. Dove l’ansia di raggiungere presto il risultato ed evitare altre decine di migliaia di vittime si intreccia con immagini d’archivio che mostrano gli effetti del disastro bellico in Gran Bretagna, in una delle poche scelte davvero registiche del film. Mentre quello che racconta l’adolescenza e le prime pulsioni omosex di Turing sfiora il didascalismo e tutto il segmento post-bellico – che avrebbe dovuto in teoria raccontare la sofferta solitudine dell’uomo una volta ottenuto il grande successo di una vita ma abbandonato e anzi brutalmente vessato dalle istituzioni per via delle proprie inclinazioni sessuali – risulta invece del tutto superfluo, edulcorato e perciò incapace di dare forma visiva alla disperazione esistenziale di Turing.
The Imitation Game, più che un’ambiziosa riflessione sui beffardi disegni del Destino e sulla pesantezza di alcune scelte morali che seguono di conseguenza la gestione di un grande traguardo, resta dunque l’illustrazione a tratti emozionante ma più spesso pedissequa di una pagina di storia dimenticata o forse poco nota ai più, nonché un robusto veicolo promozionale della bravura di Cumberbatch. Chissà se i membri dell’Academy ne prenderanno atto, alla prossima cerimonia di premiazione…

Daniele De Angelis

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