Sympathy for the Mistress
Controverso il percorso autoriale di Park Chan-wook dopo la trilogia della vendetta che lo fece conoscere a un vasto pubblico, apice che non ha più raggiunto. Da un lato, con questo ultimo The Handmaiden (per la tardiva uscita italiana ribattezzato Mademoiselle), in Concorso al Festival di Cannes 2016, il regista sudcoreano sembra richiamare quella triade di film, nell’inversione narrativa, nella citazione esplicita della piscina e del polpo, e dall’altro sembra invece andare verso quel cinema orientale storico e calligrafico che tanto piace ai festival e al pubblico occidentale, dopo i successi di Lussuria di Ang Lee, e di The Housemaid di Im Sang-soo, dei quali riprende il tema della lascivia, dell’affresco storico dell’occupazione giapponese dal primo (anche se in Corea e non in Cina) e della dimensione da melò con le sue grandi dimore patronali, il secondo. La via inedita di Park Chan-wook è proprio quella di far interagire dialetticamente queste due diverse dimensioni.
The Handmaiden è un film dalla trama a rigoroso incastro geometrico divisa in tre parti, la seconda e la terza delle quali funzionano per successivi ribaltamenti narrativi che rigirano come un calzino la storia come ci era stata raccontata fino a quel momento. Protagonista, nel 1930, nel pieno della dominazione nipponica della penisola coreana, una domestica coreana, Sokee, che viene assunta in servizio nella grande dimora di una ricca ereditiera giapponese, Hideko. Si tratta di una manovra in realtà di un cinico conte giapponese, perché la domestica, sua complice, possa favorire i suoi piani di seduzione della Lady Lyndon di turno, del cui patrimonio anela a impossessarsi. Ma tra le due donne nascerà una relazione sentimentale e trame e contro-trame, doppi giochi, trappole e scambi di persona si sprecheranno. Evidente a una prima lettura la rappresentazione, nel rapporto serva-padrona, nel triangolo con protagonisti due giapponesi altolocati e una umile domestica coreana, dei rapporti conflittuali, di dominio e sottomissione, atavici tra i due paesi, Giappone e Corea. Il tema del doppio, caro al regista, arriva ora a coinvolgere le due nazioni, da sempre nemiche.
La grande dimora, in cui si svolge la maggior parte del film, viene presentata come suddivisa in due ali, una in stile britannico, l’altra in stile giapponese, due culture accomunate dai formalismi e dai ritualismi, dalle cerimonie del tè ai tè delle cinque dei lord, oltre che da una storia di colonialismo. Park Chan-wook costruisce un film di estrema raffinatezza, dalla estrema ricchezza calligrafica che insegue l’estetica giapponese. Composizioni di oggetti nell’inquadratura che comprendono bonsai, ikebana, giardini zen, tokonoma, ciliegi in fiore in una sapiente e studiata alternanza, secondo i dettami della filosofia orientale, di vuoto e pieno. Che il regista coreano insegue in inquadrature studiatissime, come nel quadro suddiviso da una grata di una finestra, con alternati vetri lisci e vetri ondulati, in modo da creare, nel ritratto della persona che vi si affaccia, ancora un’alternanza tra segmenti nitidi e appannati. Ma, a differenza di un Ang Lee, Park Chan-wook mostra la piena consapevolezza di esibire una superficie figurativa di estrema ambiguità. Le stesse immagini vengono riproposte per essere lette e rilette e reinterpretate.
Tutto nel film sembra passare attraverso questa fascinazione figurativa nipponica, che sottende bellezza e al contempo falsità. Se gli atti sessuali in L’impero dei sensi di Nagisa Oshima rappresentavano una sorta di contraltare di perversione animale alla raffinatezza di un profluvio di kimono elegantissimi, per Park Chan-wook anche lussuria e lubricità vengono mediate dalla rappresentazione degli shunga, le stampe erotiche di epoca Edo attraverso le quali passa anche l’autocitazione del regista e del polipo di Old Boy, ripreso nel famoso shunga, il sogno della moglie del pescatore di Hokusai. E l’albero di ciliegi in piena fioritura, simbolo per eccellenza della filosofia nipponica dell’impermanenza, della bellezza che dura un attimo, della caducità della vita, è l’albero su cui impiccarsi, impiccare la propria anima o simulare l’impiccagione, e da cui si manifestano fantasmi.
In Old Boy i personaggi si risvegliano dall’ipnosi scoprendosi mostri. Ora il regista crea l’ipnosi di un lirismo e un estetismo visivi, che sono anche quelli di un’occupazione coloniale: dietro questa superficie Park Chan-wook riesuma i mostri del suo cinema.
Giampiero Raganelli